«Noi crediamo nella possibilità di rendere la vita diversa per le persone che abitano quest’area: entrambi i popoli devono avere giustizia, uguaglianza, libertà di movimento e di scelta. Possiamo costruire un futuro migliore assieme». Maayan Inon è una donna israeliana, nata in un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza. Quando era piccola, è sempre stata a contatto con persone palestinesi; poi è andata a vivere a Tel Aviv, è diventata una terapeuta. Il sette ottobre di due anni fa, il suo mondo è stato stravolto: i suoi genitori, che ancora abitavano in un piccolo villaggio, sono tornati a casa dopo aver passato una giornata assieme a lei e ai suoi fratelli in città. Quel giorno è stato l’ultimo in cui li ha visti. Su Whatsapp, prima che si perdessero i contatti, il padre ha scritto che c’erano molti missili e che non sapeva cosa stesse succedendo. Due settimane dopo, il corpo dell’uomo è stato identificato. La madre è stata dichiarata deceduta da una commissione, ma la salma non è mai stata trovata.
L’incontro con il Parent Circle
Tre mesi dopo questi avvenimenti, Inon ha deciso, su spinta di suo fratello, di unirsi al Forum di famiglie Parent Circle, un luogo di incontro e di scambio per persone israeliane e palestinesi che hanno perso i propri cari a causa dei conflitti tra i due popoli o dell’occupazione. «Mio fratello ha molti amici palestinesi che ci hanno chiamati e ci hanno dato conforto, abbiamo davvero sentito il loro dolore, molto forte», continua Inon. «Lui ha suggerito di incontrarci con il Parent Circle, di ascoltare quello che questo gruppo aveva da dire e sentire quello che faceva. Io prima non ero un’attivista per la pace. Lavoravo nella mia clinica, da sola, non ero coinvolta in molte attività sociali e politiche. Ho fatto moltissime domande al Parent Circle, ho chiesto cosa fosse per loro la pace, cosa fosse la riconciliazione. Non pensavo che potesse essere più possibile, dopo avvenimenti così violenti. È stato difficile per me accettare che si poteva ancora parlare con l’altra parte. Man mano che rispondevano, però, quello che dicevano ha iniziato a sembrarmi ragionevole. Ho deciso di dare al gruppo una possibilità. E ogni volta che gli davo una possibilità e ci andavo, sentivo il mio cuore guarire. Anche se a volte è difficile sentire le storie degli altri. Però mi dico: “Permetti a te stessa di ascoltare”. Con ogni storia il mio cuore diventa più grande e più forte».
È stato difficile per me accettare che si poteva ancora parlare con l’altra parte. Ho deciso di dare al gruppo una possibilità. E ogni volta che gli davo una possibilità e ci andavo, sentivo il mio cuore guarire.
La storia di Sema
Tra le testimonianze che Inon ha ascoltato, anche quella di Sema Awad. Oggi le due donne sono amiche, durante l’intervista – virtuale – a cui partecipano assieme si scambiano parole di affetto, non vedono l’ora di incontrarsi di nuovo di persona. Eppure, all’inizio, comprendersi non è stato semplice. «Mia madre si è sposata quando aveva 14 anni», racconta Awad, «e ha sofferto cinque anni per avere Mahmud, il mio fratello maggiore, che le ha insegnato cosa volesse dire essere madre, cosa volesse dire amare. Tutta la sua capacità di provare gioia, di ridere, veniva da lui. Quando Mahmud aveva 17 anni – e io tre – c’è stato un attacco da parte dell’esercito israeliano occupante. Venivano a distruggere una casa e mio fratello era nel gruppo che cercava di difenderla. Gli hanno sparato al petto. L’ultima cosa che ha detto all’altro mio fratello è stata “Prenditi cura di nostra madre”».
Da quel giorno, la mamma di Awad si è spenta. «Non riesco a ricordare mia madre che si prendesse cura di noi», dice la donna. «L’unica cosa che ricordo di lei è che stava seduta, con in mano le foto di Mahmud, a piangere. Abbiamo perso la connessione tra noi, come famiglia. In teoria eravamo ancora famiglia, ma non lo eravamo per davvero».
Poi, dopo anni, un’amica della madre di Awad le ha parlato del Parent Circle. «C’è un gruppo di donne che condivide il dolore», le ha detto. Lei ha provato a incontrare queste persone. «C’era una donna israeliana e mia mamma si è rifiutata di sedersi con lei e parlarle», ricorda la palestinese. «Le ha detto “La tua gente ha ucciso mio figlio e mi ha rubato la maternità. Avete distrutto la mia vita”. La donna israeliana l’ha fermata e le ha detto che anche lei era una madre che aveva perso suo figlio nel conflitto. Dopo questo episodio, abbiamo realizzato di dover cambiare, di dover parlare. Abbiamo deciso che era importante stare assieme e confrontarsi, perché abbiamo capito di essere tutti umani. Ora siamo una famiglia, di nuovo. Siamo connessi e speriamo di continuare a costruire il nostro futuro come voleva mio fratello».

Le attività del Parent Circle
L’attività più importante del Forum di famiglie Parent Circle è legata all’incontro. Vedersi, occhi negli occhi, raccontarsi. Se non è possibile in presenza, per l’occupazione o all’epoca della pandemia, farlo online. A volte le donne passano del tempo assieme, fanno dei workshop. «A fine ottobre avremo un weekend insieme», dice contenta Inon. «Siamo molto eccitate, non vediamo l’ora». Il Parent Circle lavora anche coi più giovani: c’è un summer camp – destinato ai ragazzi dai 14 ai 18 anni – in cui adolescenti israeliani e palestinesi si conoscono, parlano delle loro vite, condividono le loro idee sulla situazione e sul conflitto che vivono. Insomma, si tratta di un’occasione per vedere l’altro come un essere umano. «C’è anche un gruppo che si chiama Yap, che coinvolge giovani dai 19 ai 35 anni, di cui anche io faccio parte ora», spiega Awad, «in cui discutiamo le possibili soluzioni per quello che stiamo vivendo». È importante condividere anche la storia dei due popoli: le narrative israeliane e palestinesi sono molto diverse tra loro e confrontarle mostra punti di vista differenti. Il Forum porta avanti anche delle attività pratiche, principalmente nel West Bank, per aiutare i villaggi, per esempio piantando alberi che i coloni hanno sradicato, donando il necessario per la scuola, costruendo asili. I partecipanti del Parent Circle hanno un’altra missione: diffondere la loro visione e il loro modo di vedere in tutto il mondo. Perché l’immagine che l’opinione pubblica nei diversi Paesi ha della situazione è spesso parziale.
«Non rappresento il popolo israeliano, posso solo parlare dal mio cuore», commenta Inon, «ma so che molti altri condividono con me questo sentimento. Quello che sta avvenendo a Gaza è orribile e doveva fermarsi molto tempo fa. Non posso credere stia succedendo davvero. Noi stiamo cercando davvero di fare tutto quello che possiamo. Forse possiamo fare di più, non lo so, ci pensiamo continuamente. Proviamo tante cose, come Parent Circle e come individui, anche a mandare denaro, per esempio. Scendiamo in strada con le foto dei ragazzi e dei bambini che sono stati uccisi. Ci sono molte dimostrazioni in Israele. Ci sono tante persone che vogliono che quello che sta succedendo – non so come chiamarlo, genocidio, guerra – finisca. Sicuramente, anche gli ostaggi sono un tema. Ci sono persone che non vogliono ascoltarci. Penso ci siano estremisti da entrambe le parti e questi estremisti non vogliono che ci facciamo sentire».
Non tutti gli israeliani, quindi, sono allineati con Netanyahu, anzi. Secondo Inon, la maggior parte della popolazione non condivide le idee del Governo. «Non ci mostrano nei media le immagini di Gaza», dice. «Noi non possiamo vedere quello che vedono in Europa. E per me è veramente spaventoso che chi ci governa controlli in maniera così pesante i media».
Ci sono molte dimostrazioni in Israele. Ci sono tante persone che vogliono che quello che sta succedendo – non so come chiamarlo, genocidio, guerra – finisca.
Incontrarsi, stare assieme: un futuro possibile
Come vedono il futuro i partecipanti del Forum? «Lo vedo con due occhi differenti», dice Awad. «Da una parte c’è speranza; mi vedo a fare il lavoro dei miei sogni, mi vedo avere una mia famiglia, i miei bambini. Vorrei portarli in viaggio nel mio villaggio in Palestina, mostrare loro Israele. Da un altro lato vedo che quello che vogliono gli uomini potenti è che perdiamo la nostra terra, che tutto quello che stiamo facendo non funzioni». «È una domanda difficile, ci sono tante cose che stanno cambiando nel mondo, in Israele, in Palestina», aggiunge Inon, «tutto sta cambiando di fronte ai nostri occhi. Ci sono tanti grandi movimenti, di cui magari non conosciamo nemmeno l’esistenza. Con questo caos, è difficile pensare al domani. Ma credo che la cosa importante per noi sia scegliere di immaginare il futuro che vogliamo. Preferisco immaginare il futuro come il primo modo di vedere di Sema: spero che un giorno possa venire a trovarmi con i suoi bambini, che possiamo mangiare insieme, che io possa abbracciare i suoi figli e giocare con loro. E dopo un po’ di tempo, andare a trovarla con i miei nipoti. Penso veramente che sia possibile, non è così lontano. Io, quando ero piccola, sono cresciuta così. Ci vorrà del tempo, certo, ma la gente capirà che la guerra non è il modo giusto di vivere. Dobbiamo sopravvivere fino ad allora. E questo è quello per cui prego: che riusciamo tutti a incontrarci facilmente e liberamente dopo questi tempi difficili».
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