La scelta è tra passare la notte in strada, esposti al freddo dell’inverno e in contesti urbani spesso pericolosi, essere accolti in un dormitorio che nel migliore dei casi non può offrire più di un tetto e un pasto caldo, oppure andare a vivere in una casa.
Una vera casa che, oltre alle quattro mura e un posto sicuro, può rappresentare l’inizio di una ripartenza. Mettendo chi è abituato a vivere in strada davanti a queste tre possibilità, in pochi rifiuterebbero l’ultima opzione: meglio ancora se non legata alla tradizionale trafila che prevede prima il passaggio al dormitorio, poi alle comunità e quindi a forme più o meno allargate di convivenza. È l’approccio Housing First, ossia “la casa prima di tutto”, che vede nell’alloggio un diritto di base e un punto di partenza preliminare a ogni possibile percorso di reintegrazione sociale. Nell’Europa del Nord sta portando a risultati incoraggianti, riducendo sensibilmente il fenomeno dei senzatetto. In Italia esiste da oltre dieci anni e, dove è applicato, funziona. Il problema è che, a differenza delle eccellenze europee, sono sempre mancate una strategia e una programmazione su base nazionale.
Secondo l’ultimo censimento della popolazione pubblicato dall’Istat (risalente al 2021), in Italia le persone senzatetto e senza dimora sono quasi 100 mila (68% uomini, 32% donne) e con un’età media di quasi 42 anni. Tuttavia, è difficile avere un dato preciso su quanti effettivamente vivono in strada, anche perché molte persone in situazioni di marginalità sociale non risultano iscritte nemmeno tramite un indirizzo fittizio. Questo numero, inoltre, potrebbe anche non riflettere in pieno le conseguenze del post pandemia, che hanno portato a un aumento delle persone in condizioni di povertà assoluta (5,7 milioni, quasi il 10% della popolazione italiana) e reso più allarmante il fenomeno della precarietà abitativa.
Europa, in 10 anni raddoppiato i senza tetto
Secondo la Feantsa, la Federazione europea delle organizzazioni nazionali che operano con chi vive ai margini, in Europa sono circa 1,3 milioni le persone senzatetto, quasi raddoppiate rispetto al 2015 (quando erano circa 700 mila). L’ascesa è stata continua a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e naturalmente è stata osservata anche in Italia (stando alle stime del 2014, le persone senzatetto e senza dimora erano appena circa 50 mila). Alla vigilia del Piano casa, uno dei dossier più attesi dell’attuale legislatura e che nelle intenzioni del governo dovrebbe dare risposte al disagio abitativo di giovani coppie e precari, i senzatetto rischiano di finire ulteriormente sullo sfondo.

presidente fio.PSD
Mentre alcuni paesi europei, come la Finlandia, hanno deciso di puntare su strategie e obiettivi chiari per garantire il diritto alla casa anche agli ultimi, altrove, come in Italia, manca un piano unico. «In altri paesi europei si è deciso di partire con finanziamenti nazionali, con un approccio più strutturato. In Italia, invece, abbiamo iniziato dal basso, con un lavoro di rete tra i vari enti e le realtà sparse sul territorio, all’insegna di uno spirito collaborativo e in continuo aggiornamento in base alle esigenze del fenomeno», spiega Alessandro Carta, presidente della fio.PSD, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. Come a dire: il sistema italiano ha trovato il modo di fare di necessità virtù. «È vero, non siamo partiti con un piano nazionale, anche perché non c’erano le risorse», conferma Carta, «ma avviare Housing First in forma “decentralizzata” ha portato a un modello molto calato nella realtà italiana, che ha caratteristiche peculiari e un po’ uniche nel suo genere. Certo, farebbe molto comodo avere un quadro strutturato e un programma di medio-lungo periodo».
Il modello Housing First si è sviluppato nei primi anni ’90 negli Stati Uniti grazie allo psicologo Sam Tsemberis, che a New York ha dato vita a Pathways to Housing, un programma di contrasto della homelessness, con l’obiettivo di fornire appartamenti indipendenti a persone senza dimora e con problemi di salute mentale e/o disagio sociale. La casa come punto di partenza e non di arrivo ha rovesciato il tradizionale paradigma che vede il reinserimento nella comunità vincolato esclusivamente a un preliminare percorso di cura e trattamento, obbligatorio per ottenere un alloggio autonomo.
La carta dell’housing sociale
«Negli ultimi venticinque anni abbiamo assistito a una crescente sensibilità nei confronti del tema casa e anche l’Italia si sta avvicinando a un modello più europeo, nel quale il privato si affianca al settore pubblico, ma è anche vero che si è trattata di una rinascita disorganizzata, senza una regia unica», dice Giordana Ferri, architetto e direttore esecutivo della Fondazione Housing Sociale, costituita nel 2004 su iniziativa di Fondazione Cariplo per dare una risposta alla crescente emergenza abitativa, tramite la realizzazione di alloggi a canoni calmierati.

La Fondazione collabora con enti del Terzo settore per l’assegnazione di alloggi a persone in percorsi di prima accoglienza (113 appartamenti locati), in particolare minori non accompagnati, bambini maltrattati e donne vittime di violenza. «Purtroppo, negli ultimi due o tre anni si è bloccato tutto anche a causa dell’aumento dei costi di costruzione», spiega Ferri, «le amministrazioni pubbliche hanno la necessità di recuperare gli immobili sfitti, che sono tantissimi e in condizioni pessime, perché mancano risorse per i lavori di ristrutturazione. Ma poi servono un programma continuativo, fondi di garanzia, fondi rotativi ed eventualmente anche un po’ di fondo perduto, che risulta fondamentale per le iniziative a sostegno delle povertà estreme». Per Ferri è «ormai tempo che il nostro Paese prenda una decisione. La partnership pubblico-privato esiste, ma viene molto “raccontata” e poco attuata, perché in realtà mancano strumenti normativi che la rendano facile da applicare».
L’esempio spagnolo
Intanto dall’Europa arrivano esempi in grado di coniugare aspetto sociale e impresa. Recentemente in Spagna il Social Impact Fund, collegato al ministero dell’Inclusione spagnolo e Impact Bridge, un gestore di fondi, hanno annunciato un investimento congiunto di cinque milioni di euro in tuTechô, marchio collegato a una società quotata in borsa e tra i leader nel fornire alloggi ai senzatetto. Sostenuta da aziende, amministrazioni pubbliche, enti benefici ma anche semplici investitori privati, tuTechô dà in locazione appartamenti a organizzazioni sociali, che poi li assegnano a senzatetto e ad altre persone in situazioni di vulnerabilità (come vittime di violenza o migranti). Con un portafoglio di circa 400 immobili e investimenti complessivi per oltre 40 milioni di euro, oggi tuTechô è considerata una piattaforma di riferimento nel campo degli investimenti a impatto sociale e dal 2021 ha dato una casa a 2.500 persone. Gli alloggi della rete sono strategicamente collocati su tutto il territorio, coprendo non solo i grandi centri urbani, ma anche la Spagna rurale, favorendo il recupero del patrimonio di edilizia sociale e contribuendo a ripopolare zone poco abitate.
Quel giorno a Strasburgo
In una risoluzione del 2020 il Parlamento europeo ha definito la casa un «diritto umano fondamentale» e ha esortato la Commissione e i paesi membri a mettere fine al fenomeno nell’Ue entro il 2030. In Finlandia, invece, gli obiettivi nazionali prevedono tempi perfino più stringenti: Helsinki vuole che non ci siano più persone costrette a dormire in strada nel Paese entro il 2027. Ha adottato il modello Housing First dal 2008, arrivando a ridurre il numero di senzatetto a lungo termine del 68% tra 2008 e 2022.
La comunità italiana Housing First rappresenta una rete di 62 organizzazioni aderenti, presenti in quattordici regioni e 37 città italiane. Nei primi dieci anni sono state accolte 1.763 persone, tutte con storie diverse, ma con alcuni tratti comuni: basso reddito o disoccupate e con salute precaria. Gli effetti di ripartire da una casa sono concreti. Secondo il monitoraggio, il programma di Housing First porta a una stabilità abitativa a lungo termine per i partecipanti, con una durata media di permanenza in casa di due anni. Il 62% delle abitazioni viene fornito in modo permanente senza limiti di tempo (se non quelli previsti dal contratto di affitto). Molteplici i benefici osservati per le persone accolte, tra cui l’ottenimento del medico di base, un impatto positivo sulle relazioni con i familiari e una rinnovata integrazione nella comunità, nonché un aumento del tasso di occupazione, che sottolinea l’importanza del ruolo della casa nel favorire l’accesso al mondo del lavoro, anche se a tempo determinato o stagionale.
Carta ricorda come l’approccio classico prevedesse «un percorso estenuante», dall’aggancio della persona all’unità di strada al dormitorio e alle varie forme di convivenza fino all’arrivo, nei casi più fortunati e in un’ottica «premiale», alla casa vera e propria: «Un modello “a gradini” chiaramente con grosse debolezze, che non dava neanche garanzie sul mantenimento dell’alloggio per chi arrivava alla fine. Per questo occorreva ribaltare la logica. I dormitori non bastano, anche perché non sono distribuiti in modo omogeneo sul territorio e sono strutture molto istituzionalizzate, per regole e funzionamento, e per questo spesso rifiutate da chi vive in strada».

Il discorso casa si lega ad altre emergenze, in primis lavoro e salute, e tutto passa dalla residenza anagrafica, che consente di esercitare i propri diritti. Da oltre vent’anni l’associazione Avvocato di strada offre assistenza legale gratuita a chi ha perso tutto (3.360 persone aiutate in tutta Italia solamente nel 2024) ed è stata in prima linea per arrivare alla legge, approvata lo scorso anno, che riconosce il medico di base alle persone senza dimora. Il presidente dell’associazione, l’avvocato Antonio Mumolo, ha quindi uno sguardo privilegiato sul fenomeno. «L’esperienza dimostra che l’approccio Housing First, anche da noi, funziona. Il problema è che in Italia mancano misure strutturali di contrasto della povertà. Tutto viene portato avanti da associazioni e comuni sul territorio: si sente l’assenza di una regia nazionale», spiega Mumolo, «e la questione non è neanche economica, perché tenere in funzione un dormitorio può avere costi più elevati rispetto all’offrire appartamenti a tariffe calmierate. Purtroppo, non c’è una volontà politica di proporre misure di contrasto reale delle povertà estreme, nonostante siano in aumento». Dall’attività svolta tra la sede nazionale di Bologna e gli sportelli attivi in oltre sessanta città italiane emerge che i dormitori non sono una soluzione di lungo termine. «Possono andar bene per un periodo che va da una settimana a un mese», osserva l’avvocato, «ma poi i posti non bastano per tutte le persone in difficoltà e ci sono delle rotazioni da rispettare. Anche Bologna, una delle città che sul sociale e sull’assistenza rappresentano un’eccellenza in Italia, non ha abbastanza posti nei dormitori».
La carta delle case abbandonate
Sempre secondo Istat (dati del 2021), su 35,2 milioni di abitazioni presenti in Italia oltre 9,5 milioni, circa il 27%, non è occupato stabilmente. In gran parte si tratta di case totalmente abbandonate, spesso perché inagibili. Una situazione frutto del progressivo spopolamento di alcune aree, in particolare nelle regioni del Sud. Se da un lato le grandi aree metropolitane italiane sono tutte alle prese con un’emergenza abitativa, complice la scarsità di alloggi disponibili, in quelle periferiche c’è un’abbondanza di immobili inutilizzati e che difficilmente possono essere recuperati e reimpiegati.
C’è il tema del recupero degli edifici sfitti e poi c’è il versante degli immobili appartenuti alla criminalità organizzata e riconvertiti per dare una casa a chi vive in strada. Lo scorso anno, a Varese, Fondazione Progetto Arca ha ricavato in una palazzina confiscata, in precedenza utilizzata anche per lo sfruttamento della prostituzione, alloggi per circa trenta persone senza dimora. Casa Arca Varese, vero e proprio hub polifunzionale per fornire ascolto, riparo e sostegno alle persone in difficoltà in città è seguita a Casa Arca degli Esposti, inaugurata sempre nel 2024 ma nella zona Ovest di Roma: anche in questo caso, una palazzina sottratta alla criminalità organizzata e trasformata in un luogo sicuro per far allontanare dalla strada dodici persone.
«In Italia il disagio abitativo è multiforme», sottolinea ancora Carta, «pensiamo per esempio alle famiglie monoreddito, che oggi pagano il prezzo di politiche che non hanno saputo difenderle. Tuttavia, bisogna fare in modo che, mentre si lavora per risolvere la questione casa del ceto medio, non si perdano di vista i bisogni di chi si trova in condizione di povertà estrema. Anche in Italia possiamo e dobbiamo parlare di Homeless Zero, uno slogan che abbiamo adottato qualche anno fa, ed è giusto non porsi limiti in questo senso».
Nella foto di apertura di Alessia Fabiano/LaPresse, il Censimento che il Comune di Roma ha effettuato sui senza dimora nel 2023.
Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?
Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it