La catastrofe dimenticata
Sudan, il tassello che può far cadere tutto il Corno d’Africa
Mario Raffaelli, presidente onorario di Amref e già sottosegretario agli Affari Esteri e inviato speciale del Governo per il Corno d'Africa: «Si è dato priorità ad altre guerre e si sono trascurate vicende come quella del Sudan, ma tutto il Corno d'Africa ha numerosi focolai di tensioni aperte che possono esplodere». E sugli aiuti umanitari insufficienti: «Siamo davanti alla crisi del multilateralismo. Ma anche la poca attenzione politica a quello che accade nel Paese fa, evidentemente, nascere una crisi nella capacità di mobilitare i fondi»
di Anna Spena
Il Sudan vive la più grave emergenza umanitaria del pianeta. Dall’inizio del conflitto tra l’esercito regolare (Saf) e le Forze di Supporto Rapido (Rsf), il Paese è sprofondato in una spirale di violenza, fame e sfollamenti di massa. Secondo le Nazioni Unite, oltre 30 milioni di persone, più della metà della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria. La maggioranza di coloro che hanno bisogno di aiuto è composta da bambini (51,4%) e adulti (43,4%), mentre gli anziani rappresentano il 5,3%. La crisi degli sfollati interni è drammatica: a fine agosto erano quasi 10 milioni di persone. «Una crisi ignorata più che dimenticata», dice Mario Raffaelli, presidente emerito dell’organizzazione umanitaria Amref, già sottosegretario agli Affari Esteri, inviato speciale del Governo per il Corno d’Africa e responsabile per la politica estera del partito Azione, autore del libro “Si fa presto a dire pace”.
È la più grande emergenza umanitaria del mondo, eppure è stata dimenticata fino alla presa di Al-Fashir nel Darfur Settentrionale, conquistata dalle milizie Rsf dopo un assedio durato 18 mesi.
È stata ignorata più che dimenticata. Gli esperti denunciavano da tempo quello che stava accadendo e, ancora di più, quello che sarebbe potuto accadere. Si è data priorità ad altre guerre come quella in Ucraina o in Medio Oriente e si sono trascurate vicende come quella del Sudan, che però non è un caso isolato. Pensiamo a tutto il Corno d’Africa, o alla situazione in Etiopia: dal 2020 la guerra del Tigrè ha fatto 600mila morti accertati. Dove lo stupro è stato usato come arma e molti rapporti lo certificano. È finita due anni fa con gli accordi in Sudafrica, che sono però tutt’altro che consolidati. Il Sudan è un caso altrettanto grave, che perdura in forma violenta e accesa. Ci si è resi conto della situazione solo perché, dopo la strage a El Fasher, è cambiata in parte la situazione geopolitica sul terreno: avendo conquistato l’ultima roccaforte del Darfur, per la prima volta le Rapid Support Forces hanno il controllo di tutta la zona. Così si può ipotizzare una partizione di fatto in due del Paese.
Un Sudan instabile che conseguenze avrà in tutta la regione e quali potrebbero essere le conseguenze anche a livello europeo?
Il Sudan è solamente un tassello di un quadro di potenziale instabilità di tutto il Corno d’Africa. Per rispondere alla domanda, un aggravamento dell’instabilità e della tensione nel Paese può avere dei riflessi a catena. Ormai il Corno d’Africa ha numerosi focolai di tensioni aperte che possono esplodere. Mi riferisco, per esempio, alla questione dell’Etiopia e alla sua richiesta di accesso al mare. C’è stato un anno fa quell’accordo stipulato tra il Primo Ministro etiope e il Somaliland, in base al quale il Somaliland cedeva 20 km di costa per farne una base militare per costituire la flotta marina etiope. Accordo ovviamente contestato dalla Somalia, perché secondo il diritto vigente, il Paese ha un unico governo, così l’operazione è stata bloccata. Allora è ripartita la richiesta di utilizzare i porti di Assab e Massaua in Eritrea. Gli analisti pensano che, anche tra Eritrea ed Etiopia, ci sia un rischio di una guerra. Paradossale che il Primo Ministro etiope abbia preso il Premio Nobel per aver fatto la pace con l’Eritrea. Poi si è scoperto che questa pace era finalizzata a fini militari per creare una tenaglia che potesse stroncare il Tigray. Adesso, siccome gli eritrei non sono stati soddisfatti dagli accordi raggiunti in Sudafrica, si sono avvicinati ai tigrini e si è riaperta una tensione con l’Etiopia. A questo aggiungiamo le tensioni fra l’Egitto e l’Etiopia per la famosa questione della diga, la grande diga fatta sul Nilo, che per l’Egitto è un fatto di sopravvivenza nazionale. E soprattutto, il ruolo degli Emirati Arabi Uniti, che sono i grandi sostenitori delle Rsf e che hanno una posizione di destabilizzazione in più scenari. Quella di cui stiamo parlando è un’area dalla quale ci siamo distratti, dopo che, invece, in passato, l’Unione Europea aveva avuto un ruolo importante. Oggi di fatto siamo davanti a un contagio che potrebbe dilagare. Credo che manchi una politica che si occupi di quello che sta succedendo in quella parte di mondo.
Il Sudan ha una popolazione di 46,8 milioni di persone, 30,4 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria. Il fabbisogno per rispondere a questa emergenza era stato fissato nel 2025 a 4,2 miliardi di dollari. I fondi arrivati superano di poco il 27% rispetto a quelli necessari, mancano circa tre miliardi. Sono 9,8 milioni gli sfollati interni, tra loro 4,7 milioni sono bambini. Come rispondiamo a questi bisogni?
Siamo davanti alla crisi della multilateralità, in questo caso, umanitaria. Unhcr, per esempio, ha tagliato il 20% del personale. Vanno benissimo le marce per la pace, ma abbiamo bisogno di marce e di presa di coscienza anche rispetto a quello che sta vivendo il settore dell’umanitario. Servirebbe un movimento altrettanto impegnato per tenere alta l’attenzione su questo smantellamento e ricreare un sistema internazionale multilaterale di cooperazione che ormai è in affanno. La chiusura politica fa anche, evidentemente, nascere una crisi nella capacità di mobilitare i fondi, perché non è una priorità. Succede sempre così: quando c’è una volontà politica, scatta anche una capacità di raccolta e di utilizzo di fondi coerente con la priorità politica che si assegna.
Gli sfollati di El Fasher che sono riusciti a raggiungere Tawila hanno condiviso racconti di stragi e massacri dei civili. Il diritto internazionale umanitario è davvero morto?
Non è morto. Ma viene sempre più violato anche a causa della mancanza di reazioni adeguate a queste violazioni. Non viene rispettato e, purtroppo, succede – con l’invasione di Paesi senza averne il diritto, come il caso della Russia che invade l’Ucraina, o la situazione nella Striscia di Gaza, o in questa guerra in Sudan – che il diritto internazionale venga completamente calpestato. L’attenzione poi si accende solo quando, come nel caso di El Fasher, ci sono delle immagini satellitari che dimostrano e fanno vedere scene terribili di gente bruciata viva o sepolta viva. Ci sono molti colpevoli in questa situazione.
Chi sono?
È una colpevolezza generale caratterizzata dalla parzialità. I media che operano con determinate priorità, spesso dettate dalla convenienza, non si occupano in modo adeguato di tutti i temi che sono sul tappeto, come ad esempio i conflitti in Africa. I governi in generale: a mio avviso, si interviene giustamente per sostenere l’Ucraina, ma ci si occupa meno del Corno d’Africa. Si interviene giustamente sulla Palestina, ma non su altri contesti. Perché? I governi africani sono i principali responsabili, insieme ai Paesi del Golfo. Il problema è questo: parliamo sempre delle colpe dell’Occidente, ma dovremmo soffermarci anche sul ruolo destabilizzante che stanno giocando in particolare gli Emirati Arabi Uniti e in parte l’Arabia Saudita, per non parlare dell’Egitto e della Turchia. Il tema è davvero complesso. Prima i conflitti si risolvevano a livello di area. Questo comportava uno sforzo internazionale che durava anni e una sinergia, o comunque una non ostilità, delle potenze che su quell’area avevano un’influenza. Purtroppo, quando questo viene a mancare, in un mondo ancor più globalizzato rispetto al passato, diventa difficilissimo risolvere i conflitti perché ci sono troppi interessi contrastanti in gioco e troppe influenze, diciamo, negative, che spingono verso il mantenimento del conflitto anziché verso la sua pacificazione.
Foto: sfollati a Tawila/Associated Press/LaPresse
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