Crisi

Sudan, la più grave catastrofe umanitaria del mondo. Perché la stiamo dimenticando?

Il conflitto ha causato 10 milioni di sfollati e oltre 30 milioni di persone bisognose di assistenza. L'insicurezza alimentare è catastrofica (24,6 milioni di persone), con la malnutrizione infantile oltre la soglia di carestia. Chiara Zaccone, capo missione per Coopi - Cooperazione internazionale in Sudan: «“Cosa significa svegliarsi al mattino e non sapere se si arriverà a fine giornata?”. I sudanesi ormai se lo domandano tutti i giorni»

di Asmae Dachan

«Io e i miei colleghi ce lo chiediamo spesso», la voce di Chiara Zaccone arriva precisa da Port Sudan. Zaccone è la capo missione per Coopi – Cooperazione internazionale in Sudan, il Paese che sta vivendo la più grande catastrofe umanitaria del mondo. Quello che Zaccone si chiede spesso, insieme ai suoi colleghi e colleghe sudanesi è “perchè?”. «Perché l’attenzione mediatica e la copertura mediatica di questa crisi non sono proporzionali alla gravità della situazione», dice.

Il Sudan è oggi teatro della più grave emergenza umanitaria del pianeta. A oltre due anni dall’inizio del conflitto tra l’esercito regolare (Saf) e le Forze di Supporto Rapido (Rsf), il Paese è sprofondato in una spirale di violenza, fame e sfollamenti di massa. Nel settembre 2025, l’esercito sudanese ha riconquistato la città di Bara, snodo logistico fondamentale per la Rsf lungo la cosiddetta “Export Road”, che collega Khartoum a el-Obeid e da lì a Darfur, Sud Sudan, Eritrea ed Etiopia. La presa di Bara ha interrotto le linee di rifornimento della Rsf e ha consolidato il controllo della Saf su una delle arterie strategiche del Paese.

Secondo le Nazioni Unite, oltre 30 milioni di persone – più della metà della popolazione – hanno bisogno di assistenza umanitaria. Di queste, il 51,4% sono bambini, il 43,4% adulti e il 5,3% anziani. A fine agosto 2025, gli sfollati interni erano quasi 10 milioni. Il World Food Programme – Wfp stima che 24,6 milioni di persone si trovino in insicurezza alimentare acuta, con 637mila in condizioni di fame catastrofica. Un bambino su tre è colpito da malnutrizione acuta, superando la soglia che definisce lo stato di carestia. A El Fasher, capitale del Darfur Settentrionale, migliaia di famiglie sono intrappolate da mesi, mentre i convogli umanitari non riescono a raggiungere la città.

Dentro questi numeri ci sono esseri umani, storie, famiglie: «I racconti che arrivano dal campo dai colleghi che ancora oggi – coraggiosamente – stanno in città sotto assedio come El Fasher», continua Zaccone, «sono racconti umanamente difficili. Parliamo di civili intrappolati, bloccati. Persone che non possono fuggire per cercare rifugio e che ogni giorno devono adattare la propria vita attorno agli orari dei bombardamenti».

La mattina in cui la raggiungiamo al telefono ci racconta di uno scambio con un suo collega bloccato a El Fasher: «È lì perché insieme ad altri prova a far arrivare alla popolazione sfollata l’acqua potabile. Mi ha raccontato che le 200mila persone bloccate non temono più solo i bombardamenti, temono la fame: il cibo non si trova, i prezzi sono altissimi. Come possono queste persone sfamare se stessi? Come possono queste persone sfamare i loro figli?».

La coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite in Sudan, Denise Brown, aveva condannato duramente gli attacchi contro i civili nel Nord Darfur, attribuiti alle Rsf. In una dichiarazione ufficiale rilasciata il 12 ottobre, aveva affermato:  «Condanno con la massima fermezza i ripetuti e deliberati attacchi contro i civili nel Nord Darfur. […] Gli ospedali, i rifugi e i luoghi di accoglienza non devono essere presi di mira». Gli attacchi a cui fa riferimento Denise Brown hanno colpito anche l’ospedale saudita di El Fasher, l’ultima struttura sanitaria funzionante nella regione, causando decine di vittime e feriti. Una struttura servita da Coopi, qui ogni giorno l’ong fa arrivare acqua potabile. Eppure gli appelli della comunità umanitaria che chiede l’ingresso degli aiuti e il rispetto delle vite dei civili rimangono inascoltati. Così chi resta prova a fare l’impossibile con quello che ha. «Non abbiamo mai lasciato il Paese dall’inizio del conflitto», continua Zaccone. Coopi è presente qui dal 2004 e negli ultimi due anni ha riorganizzato i propri interventi per rispondere con maggiore efficacia alla crisi. Dieci progetti, che hanno raggiunto quasi 150mila persone con interventi legati alla sicurezza alimentare, all’approvvigionamento idrico, alla protezione e alla riduzione dei rischi sanitari. «Abbiamo adattato la nostra risposta affinché potesse essere emergenziale, mantenendo la flessibilità necessaria per raggiungere le persone con una più grave situazione di bisogno». Ma non basta. «Altri nostri colleghi», continua, «ci hanno raccontato che dei membri della loro famiglia hanno tentato di scappare dalla città di Al-Fasher, ma sono stati bloccati lungo le vie e sono stati torturati. Quindi anche la fuga, anche la ricerca di un posto più sicuro, sono scelte estreme. A volte fuggire può essere più pericoloso che restare e rischiare di morire di fame o sotto le bombe». 

Intanto, il Wfp lancia l’allarme: la riduzione del 40% delle donazioni rischia di spingere fino a 13,7 milioni di beneficiari da una condizione di crisi a una vera emergenza alimentare. Le operazioni di lancio aereo di cibo, vitali per raggiungere le zone isolate, sono a rischio per mancanza di fondi. Il Sudan è tra i sei “hotspot” globali più vulnerabili ai tagli umanitari. In un contesto segnato da attacchi deliberati contro i civili, collasso istituzionale e fame estrema, le organizzazioni umanitarie continuano a operare con coraggio e determinazione. Ma senza un intervento internazionale urgente, il Sudan rischia di precipitare in un collasso sistemico, con conseguenze devastanti per milioni di persone.

«Persone», continua la capo missione di Coopi, «che sono sempre più stanche. Anche gli stessi operatori umanitari. E insieme alla stanchezza c’è anche la sfiducia: “Che ne sarà del futuro del Sudan?”.  Quello di Zaccone è anche un appello: «Io penso che l’attenzione della comunità internazionale debba necessariamente rivolgersi anche alla crisi umanitaria in corso in Sudan. Perché quell’attenzione che oggi il Paese non ha può fare la differenza. La può fare nei tavoli negoziali, nel supporto che può essere dato alla popolazione sudanese nell’affrontare questa crisi. L’abbiamo già detto: i bisogni sono elevatissimi, e siamo consapevoli di non riuscire a coprirli tutti. E forse proprio per questo è necessario continuare a raccontare quello che sta accadendo, è necessario arrivare nelle case delle persone e mostrare, e far arrivare la voce delle persone. Di chi vive in città come Al-Fasher, per esempio. O di chi prova tra mille difficoltà a ritornare a Khartoum dove si sta lo stesso senza cibo e senz’acqua potabile. Dovremmo tutti chiederci: “Cosa significa svegliarsi al mattino e non sapere se si arriverà a fine giornata?”. I sudanesi se lo domandano tutti i giorni».

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