Sanità
Sardegna, l’isola senza cura
Mancano all'appello 500 medici di Medicina generale e 50 pediatri. Ormai quasi un quinto dei sardi rinuncia alla cure. La denuncia di Alessandro Rosas, portavoce del Coordinamento dei comitati sardi per la sanità pubblica e Daniela Falconi, sindaca di Fonni e presidente dell'Anci Sardegna
Il 17% dei sardi rinuncia alle cure, e questo succede da troppo tempo. In alcune zone, per esempio nel Sulcis Iglesiente, si è superato addirittura il 20%. Una persona su cinque, per la maggior parte anziani. Una enormità. Le cause? Gli indigenti sono in costante aumento (i pensionati con la “minima”, coloro che hanno perso il posto di lavoro, le persone che un’occupazione ce l’hanno ma il reddito è troppo basso per far fronte alle spese sanitarie, oppure i lavoratori che sono separati/divorziati e devono versare un cospicuo assegno mensile all’ex coniuge) e le file chilometriche per prenotare una prestazione specialistica, inducono molti a rinunciare.
Di questo si parla da anni, e l’avvicendarsi delle Giunte regionali non ha mostrato cambiamenti di rotta. Sale il malcontento tra i cittadini e si moltiplicano i comitati spontanei che esercitano una pressione sul decisore politico per trovare al più presto soluzioni efficaci. «Siamo nati nel periodo della pandemia e da tempo organizziamo momenti di sensibilizzazione, come incontri pubblici e convegni nei vari territori, coinvolgendo altre istituzioni come le amministrazioni comunali e la Caritas», spiega Alessandro Rosas, portavoce del Coordinamento dei comitati sardi per la sanità pubblica, che raggruppa la maggior parte dei comitati, delle associazioni e persino singoli cittadini interessati a questo problema. «Il nostro coordinamento percorre due strade: una riguarda le manifestazioni in piazza, i sit-in, le denunce formali; l’altra prevede l’elaborazione di proposte concrete da presentare alle istituzioni, a cura di un gruppo di studio che comprende medici, infermieri e dirigenti sanitari. Limitarsi alle sole proteste non ha senso, men che meno in questo periodo».

La crisi riguarda ormai tutta l’Isola. «Si è estesa anche alle due città più grandi, Cagliari e Sassari», conferma Rosas. «Tuttavia, le criticità più evidenti si registrano nella Sardegna centrale, da Oristano a Nuoro, in particolare nelle aree interne. La pandemia ha enormemente complicato le cose, ma per noi la crisi sanitaria non è mai terminata. I problemi sono tanti, tuttavia quello principale è l’emorragia dei medici pediatri e di Medicina generale, come nel resto d’Italia. A differenza delle altre regioni, però, soffriamo l’insularità: l’emigrazione sanitaria extraregionale (per i fortunati che possono permettersela) da noi è altissima ma non siamo collegati agli altri territori della penisola, spostarsi da un luogo all’altro diventa complicato. In base alla popolazione (poco meno di un milione 600mila abitanti, secondo i dati Istat dell’aprile 2025, ndr) e a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di settore, in Sardegna dovremmo avere 1.400 medici di Medicina generale. Un tetto mai raggiunto, in passato siamo arrivati a 1.200 ma oggi mancano all’appello 500 medici. Sino a due anni fa ne mancavano 467, con i pensionamenti il numero aumenta progressivamente. Significa che una fetta importante della popolazione sarda non ha il medico di Medicina generale, che è il pilastro del nostro sistema sanitario pubblico. I pochi medici rimasti, soprattutto nei grandi centri, sono ormai costretti a seguire persino 1.800 pazienti, ben oltre il limite previsto (circa 1.200), mentre nelle zone dell’interno devono occuparsi di diversi paesi. In Barbagia e nel Mandrolisai ci sono 12 Comuni privi di pediatri oppure ce li hanno con il contagocce. Io abito a Terralba, nell’Oristanese: in questo territorio mancano sei degli otto medici di Medicina generale previsti per legge. A quanto già detto va aggiunto un particolare che non è secondario: in Sardegna, più che in altre regioni italiane, l’età media cresce di anno in anno. Di conseguenza, aumentano le patologie da curare. Da noi si registra il tasso più alto d’Italia riferito alle rinunce alle cure: in alcune zone disagiate, abbiamo superato il 20%, raggiungendo punte del 30-40%».

Rosas entra ancor più nel dettaglio, per far meglio comprendere il dramma che vivono quotidianamente le famiglie. «La mia famiglia è composta da quattro persone, mio padre è cardiopatico e per giunta vive in un altro comune, poi ci sono i miei suoceri. Siamo tutti senza medico. A Terralba ci sono soltanto due medici per circa diecimila abitanti. Qualche volta mi chiedo: chi seguo prima, mio padre o mio suocero? Ognuno ha i propri problemi di salute, non possiamo accollarci certe responsabilità. Nel nostro territorio, negli Ascot (gli Ambulatori straordinari di comunità territoriale, ndr) ci sono file di cinque ore. E magari il medico, a un certo punto della giornata, è costretto ad andare via per una visita urgente a domicilio».
«Si raccomanda ai cittadini di non intasare gli ospedali per prestazioni da codice bianco o verde», prosegue il portavoce del Coordinamento. «Ma quando mancano i medici, che cosa può fare una persona, se non rivolgersi alla Guardia medica o al Pronto soccorso? Senza contare che in alcuni paesi non c’è la Guardia medica, oppure il servizio è limitato a poche ore. Il sistema non riesce più a dare risposte: penso anche ai lavoratori che, per ottenere un certificato di malattia, devono rivolgersi all’ospedale più vicino. Io per primo, quando ho una lieve influenza, preferisco prendermi uno o due giorni di ferie piuttosto che perdere poi una intera giornata in fila in una struttura sanitaria per queste procedure amministrative».

Quali soluzioni propone il Coordinamento al decisore politico? «Ci sono diverse possibilità», spiega Rosas. «In alcune regioni si ricorre al medico a gettone, ma noi siamo contrari: non solo ha costi elevati ma è una chiara deriva privatistica. Invece è praticabile l’assunzione di medici stranieri, naturalmente dopo la necessaria formazione se dovesse occorrere. Si potrebbe ricorrere agli Ascot, ai quali possono accedere gratuitamente i pazienti privi di medico di Medicina generale per usufruire delle prestazioni sanitarie di base. Anche in questo caso, ci sono pro e contro, in quanto è un servizio che non dà continuità. C’è poi da dire che un medico non ha piacere a trasferirsi in un piccolo paese delle zone interne, che si stanno sempre più spopolando. Il problema si riversa soprattutto negli ospedali, che nel Centro Sardegna sono in gravissima difficoltà da anni. La pressione, quindi, si trasferisce nelle città più grandi. Non a caso, nelle nostre manifestazioni di protesta, poniamo l’accento anche sulle carenze del personale sanitario negli ospedali. Molti infermieri si stanno licenziando dal posto pubblico perché non riescono più a sostenere i turni massacranti cui sono sottoposti da anni. È un dato preoccupante e sottovalutato».
«Il soggetto politico non riesce più a governare la sanità pubblica, e questo a prescindere dallo schieramento», commenta Rosas. «I cittadini, mediamente, non si sentono più rappresentati da loro: ecco spiegata la nascita di tanti comitati. C’è un vuoto enorme, che richiede una politica più forte e attenta ai problemi della gente. Non è soltanto un problema della sanità, ma la salute ci tocca tutti più da vicino. A volte interviene in soccorso il Terzo settore, ma certe problematiche non si possono risolvere con il volontariato, anche se di qualità. Se la protesta sinora non è stata ancora più forte, è proprio grazie a quanto è stato fatto da un pilastro fondamentale com’è il Terzo settore. Per questo motivo cerchiamo una interlocuzione continua con i sindaci e le istituzioni. Come prima iniziativa, qualche anno fa, avevamo proposto all’Anci un consiglio straordinario sulla sanità pubblica, aperto alla cittadinanza. In generale, ci poniamo al fianco dei sindaci perché ci rappresentano tutti. Ma provo vergogna quando vedo aderire a un comitato una persona che ha una grave patologia e non riesce a curarsi».
L’Anci Sardegna
«Ho incontrato a Oristano le diverse organizzazioni che si occupano di questo importante problema, e sono sempre a disposizione per approfondire ulteriormente le varie tematiche», sottolinea Daniela Falconi, presidente dell’Anci Sardegna. «Di recente ho chiesto un incontro all’assessore regionale della Sanità, Armando Bartolazzi, reso ancor più urgente alla luce di tre episodi accaduti nel giro di pochi giorni: una donna di 38 anni, medico di Dorgali, è morta per aver trascurato le cure di una grave patologia pur di assistere i suoi pazienti; ad Aritzo, in assenza della Guardia medica, un uomo di 46 anni è morto per un infarto; e nell’arco di poche ore hanno chiuso il Pronto soccorso dell’ospedale di Isili per mancanza di medici. All’assessore Bartolazzi ho chiesto una convocazione almeno dei sindaci che presiedono le conferenze sociosanitarie, in quanto noi sindaci siamo responsabili della sanità pubblica dei nostri territori. Proprio ieri ho parlato con Bartolazzi e ci vedremo nei prossimi giorni, con lui e il suo staff: non per fare l’elenco dei problemi, bensì per ragionare sulle possibili soluzioni strutturali. La mancanza di tanti medici di base e il sovraffollamento dei Pronto soccorso sono diventati ormai problemi che, se non li aggrediamo subito con idee innovative, ci presenteranno il conto. La nostra idea è quella di presentarci con proposte concrete e magari cambiare metodo, puntando sull’apertura delle Case della comunità laddove presenti e affiancare i medici con gli infermieri di comunità, per dare risposte immediate ai cittadini».

«In Sardegna, oltre ai medici di Medicina generale, mancano una cinquantina di pediatri», fa notare la presidente Falconi. «Ma alle porte si profila un altro problema: il 2026 e il 2027 saranno gli anni con il maggior numero di pensionamenti di quest’ultimo periodo in ambito sanitario, quindi sta arrivando uno tsunami. Servono soluzioni efficaci e in tempi rapidi. Perché, nel giro di due anni, quello che a noi sembra un problema può trasformarsi in un vero e proprio disastro sociale».
Falconi è anche sindaca di Fonni, un paese del Nuorese di circa 3.500 abitanti. Conosce molto bene gli effetti dello spopolamento e del progressivo invecchiamento della popolazione. «Una delle proposte che i sindaci fanno è una maggiore integrazione con i servizi socioassistenziali», spiega. «Troppo spesso, il servizio sociale che è in capo ai Comuni non dialoga con la sanità. A volte, l’assistenza agli anziani – se viene eseguita bene e se c’è il personale con le giuste competenze – evita che gli anziani utilizzino il letto d’ospedale come una residenza quando stanno male. Credo che si possa trovare una soluzione con un adeguamento dei servizi sociosanitari, coinvolgendo Oss e infermieri di comunità per poter accudire quelle persone direttamente a casa».
Credits: foto di Alessandro Rosas e Daniela Falconi
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