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Processo alla bont

Per il settimanale inglese compito dell’impresa è quello di creare profitto. E Tra tutti gli stakeholder uno conta su tutti: l’azionista

di Redazione

Una società non potrà più andare avanti a occuparsi tranquillamente del suo business, senza mentire o andare contro la legge, vendendo ciò che la gente vuole e traendo un profitto. Tutto questo è così superato. Oggi tutte le società, ma specialmente quelle più grandi, ricevono una pressione da ogni parte affinché si preoccupino meno degli utili e siano invece socialmente responsabili. Sorprendentemente, forse, queste domande hanno sollecitato una risposta zelante, per non dire appassionata, ovunque nei consigli di amministrazione illuminati. Oggi le società in ogni situazione rispettano i principi della responsabilità sociale d?impresa. Hanno infatti funzionari csr, consulenti csr, uffici csr e iniziative csr? Una buona cosa, si potrebbe pensare. Quale idiota contesterebbe le argomentazioni a favore della csr? Inizia così, con brutalità e senza mezze parole, l?editoriale del numero di The Economist. Il settimanale inglese fa un elenco delle pratiche consuete dei manager socialmente responsabili. E li divide in due categorie: quelli cinici che seguono queste pratiche per opportunismo e quelli più convinti, assertori di un capitalismo gentile. Ma tutti partono da un presupposto pericolosamente sbagliato. Ecco qual è. I sostenitori della csr partono dalla premessa che il semplice capitalismo non è in grado di servire l?interesse pubblico. La ricerca dell?utile, argomentano, potrebbe essere una necessità deplorevole nel mondo moderno. Ma il problema è che gli utili delle imprese private vanno esclusivamente agli azionisti. E per quanto riguarda l?utile sociale? Solo se le società riconoscono i loro obblighi nei confronti della collettività – nei confronti dei portatori di interessi piuttosto che dei proprietari del business, quell?interesse sociale più ampio potrà avanzare. Spesso i governi possono imporre questi obblighi alle società, attraverso le tasse e le leggi. Ma questo non toglie il debito dovuto dalle imprese illuminate alla collettività. Per fare questo è necessaria la csr. Tutto questo è sbagliato. Lo scopo di una società ben amministrata potrebbe benissimo consistere nell?ottenere degli utili per i suoi azionisti. Facendo semplicemente questo – ammesso che si confronti con la competizione all?interno del suo mercato, si comporti onestamente e obbedisca alle leggi – l?impresa, senza neanche provarci, si sta comportando bene. I suoi impiegati lavorano volentieri per la società in cambio dei salari; la transazione rende dei profitti. I suoi clienti pagano volentieri i prodotti della società; la transazione è di vantaggio anche per loro. Il perseguimento egoistico del profitto serve uno scopo sociale. E questo è un modo per dire le cose in modo blando. Il tenore di vita delle persone in Occidente non è dovuto a nient?altro che all?egoistica ricerca del profitto. Questo è un punto che Adam Smith ha enfatizzato nel suo libro La ricchezza delle Nazioni: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio, del panettiere che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal perseguimento del loro interesse personale». Questo non è il fatale difetto del capitalismo, come sembrano credere i sostenitori della csr; è la vera ragione per cui il capitalismo funziona. Forse è così, i sostenitori della csr potrebbero replicare, ma forse il sistema funzionerebbe anche meglio se ci fosse più altruismo nei consigli di amministrazione e un po? meno di egoismo. The Economist a questo punto elenca una serie di comportamenti ambigui dei manager che professano il credo nella csr. Infatti resta inevasa una domanda: chi paga la loro generosità? Il settimanale cita il recente caso dell?emergenza dello tsunami che ha determinato grandi donazioni ad enti umanitari da parte delle aziende. Atteggiamento di generosità ambigua, in quanto quello è denaro che non appartiene ai manager che lo hanno devoluto, bensì agli azionisti. E c?è anche di peggio: accettando le pressioni di organizzazioni umanitarie, molte aziende si ritirano da Paesi dove non ci sono garanzie sufficienti sul rispetto dei diritti umani o riguardo alle condizioni di lavoro. In questo caso il danno lo ricevono i Paesi poveri, a cui viene sottratta una ricchezza. A questo punto The Economist tira le sue conclusioni draconiane. Considerato quanto detto, ci sono molte ragioni per lasciare la politica sociale ed economica ai governi. Essi, almeno, sono responsabili nei confronti dei votanti. I manager non hanno il tempo per questi sforzi. Ultimamente hanno trovato molto difficile anche assolvere i loro obblighi nei confronti degli azionisti, che sono le persone che pagano i loro stipendi. Se vogliono rendere il mondo migliore bisogna che si concentrino d?ora in avanti su questo. Chi è l?autore di «Good company» Clive Crook, autore di questo dossier, è caporedattore di The Economist. Sin dal suo ingresso nel settimanale è stato corrispondente economico, poi corrispondente da Washington e, dal 1986 al 1993, redattore economico. Crook è uno dei principali opinionisti sui temi politico-economici, con un interesse particolare ai temi legati alla finanza e allo sviluppo. Prima di entrare a The Economist, Crook ha lavorato come funzionario presso il Tesoro britannico, preparando i discorsi ufficiali e gli incontri al ministero del Tesoro, compreso quelli del Cancelliere dello Scacchiere. Contemporaneamente era il braccio destro di sir Terence Burns, consigliere economico in capo del Tesoro. The Economist mette in vendita il dossier completo. La quantità minima è di cinque copie. Il prezzo è di 2,50 sterline a copia, più le spese postali. La richiesta può essere inoltrata via mail a questo indirizzo: shop@economist.com


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