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Redimere i profitti?

Una cultura ostile è entrata nel cuore di tante grandi imprese. Il guadagno è illecito se l’azienda non produce benessere sociale...

di Redazione

La terza sezione del dossier dell?Economist demolisce i demolitori del capitalismo. L?assunto iniziale è di grande elementarità: i detrattori del sistema non guardano in faccia un dato di fatto incontrovertibile: il progresso che l?umanità ha vissuto negli ultimi 100 anni è frutto della civiltà capitalistica. E anche la condizione di chi è povero è nettamente migliore di quella della stragrande maggioranza dei cittadini di un secolo fa. Ma questa diffidenza nei confronti del capitalismo, paradossalmente ha fatto breccia anche in molte tolde di comando delle grandi società. La paura paranoica del capitalismo, condivisa da così tanti tra i suoi maggiori professionisti, si riassume in due idee principali: primo, il profitto non ha niente a che vedere con il bene pubblico. Un?azienda in cerca di profitto cerca solo un tornaconto privato. Se la ricerca del profitto deve fruttare un vantaggio per l?interesse pubblico bisogna allora che ci sia un intervento deliberato e intelligente al di fuori della società. Secondo, nella loro assurda ricerca del guadagno privato, le aziende sono guidate dalla logica della caccia ad accollare rovinosi fardelli alla collettività e all?ambiente. Per quanto attiene alla società in senso lato, in altre parole, la libera ricerca del profitto non rende nulla ma costa molto. A meno che non venga controllata o dalla csr o da una disciplina di governo, l?impresa privata rende tutti perdenti tranne se stessa. Si pensa sempre che sia evidente e logico il contrasto fra vantaggio privato e pubblico interesse, senza in realtà esaminarlo veramente. I dirigenti più alti della Royal Dutch Shell si sono comportati come modelli di pensiero della csr anche grazie alle attività di beneficenza della Shell Foundation. La Shell ha diverse operazioni da farsi perdonare, come lo scandalo per le operazioni in Nigeria o la polemica che ha fatto seguito ai piani per la vendita della piattaforma di estrazione del petrolio nel Mare del Nord da parte della Brent-Spar. In un articolo che spiegava perché l?azienda aveva abbracciato la csr, sir Mark Moody Stuart, presidente dal 1998 al 2001, scriveva che la strategia della Shell era di creare profitti contribuendo al bene del pianeta. Questo sembrerebbe inopinabile ma la chiara conseguenza di quest?affermazione è che se la Shell semplicemente creasse profitti per i suoi proprietari non contribuirebbe per nulla al bene del pianeta e dei suoi abitanti. Uno dei principali sistemi e organizzazioni della csr è il World Business Council for Sustainable Development. I suoi membri sono 175 grandi multinazionali fra cui la Shell, accanto a società come la Abb, Dow Chemical, Ford, General Motors, Procter &Gamble, Time Warner e così via. In una pubblicazione del Consiglio si parla di «contributi significativi» nei confronti della società, creati dal business e dagli uomini del business. Se si paragonano le condizioni di vita al giorno d?oggi in Occidente a quelle di uno o due secoli fa, sarebbe giusto, anche se forse un poco meschino, riconoscere che le attività «hanno dato un contributo significativo». Ma secondo il Consiglio questi benefici appena apprezzabili non si sono verificati perché le attività economiche hanno prodotto favorevoli guadagni per i loro titolari; si sono verificati ciò nonostante. Il profitto purtroppo è necessario, come precisa tristemente il Consiglio. Altrimenti non potrebbero esistere le attività commerciali insieme alla possibilità di questi utili contributi. Ma quei contributi devono essere separatamente perseguiti. Non rientra nella natura dell?impresa apportare un contributo sociale. Questa è un?aggiunta, una responsabilità che l?impresa può scegliere di rispettare o no, come ritiene opportuno. L?Economist attacca la tendenza delle imprese più avanzate e più consapevoli di presentare i cosiddetti bilanci triple bottom line: cioè la rendicontazione economica, quella ambientale e quella sociale. Una tendenza sempre più diffusa, tant?è vero che all?ultimo Oscar di bilancio italiano (il riconoscimento più autorevole nel campo), solo le imprese che presentavano un simile bilancio potevano concorrere nelle singole categorie. Ma ecco quali sono le critiche che il settimanale inglese porta al triple bottom line. Il concetto di sviluppo sostenibile rafforza l?idea che le attività imprenditoriali lasciate ai loro meccanismi siano dannose. Le aziende illuminate dovrebbero farsi carico di proteggere l?ambiente e insieme difendere i diritti dei lavoratori, lottando per la giustizia sociale: sono i bilanci triple bottom line. Ma c?è un problema. è facile infatti misurare i profitti, ma non la protezione ambientale e la giustizia sociale. Non c?è un metro di valutazione per misurare i progressi in questi campi e non si può confrontarli tra di loro. Il calcolo dei profitti – la vecchia rendicontazione – rappresenta una verifica molto chiara del successo nel campo del business. Il triplo bilancio dei risultati no. Il problema è che non si sa veramente che cosa significhi progresso in campo ambientale o sociale e che non ci sono criteri per confrontare i diversi provvedimenti che si possono intraprendere in questi campi. Alcuni esempi: un?azienda riduce le emissioni di gas a effetto serra, un?altra aumenta il riciclo. Una crea asili per i lavoratori, un?altra alza i salari. Tutte queste iniziative costano, ma, a parità di spesa, è difficile dire quale di queste aziende ha fatto di più per proteggere l?ambiente o per promuovere il progresso sociale. Il grosso pregio della grande linea unitaria (quella del profitto) è che i dirigenti devono essere responsabili di qualcosa. La tripla linea dei risultati non favorisce l?agire ma il confondere. I sostenitori della csr potranno obiettare che il punto della questione è prendere in considerazione altri valori oltre al profitto, essendo consapevoli che il profitto non è tutto. Se l?attenzione fosse focalizzata esclusivamente sul profitto, sostengono, si calpesterebbero i diritti dei lavoratori e degli azionisti e si danneggerebbe l?ambiente. Questo è il mondo secondo la csr, ma il mondo non funziona così.


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