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Se il pubblico non è solo statale

Il presidente di cgm

di Johnny Dotti

La vita è fatta così. Alterna tappe e traguardi. Fa in modo che i punti d?arrivo siano al tempo stesso blocchi di partenza. Con il decreto legislativo sull?impresa sociale, mi pare si sia arrivati appunto a un buon traguardo. Occorre sapere però che da qui occorrerà ripartire con rapidità e con tanta voglia di fare. Sapendo però che alcuni punti sono stati fissati. Consapevoli che la partita non è affatto conclusa. Prendiamo il primo articolo che riconosce imprese sociali quelle «organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un?attività economica organizzata? diretta a realizzare finalità d?interesse generale». Questo articolo si pone con coerenza nella scia di affermazioni di principio contenute in altre leggi (in particolare la 381, la 328) e ha una grande valenza politico-sociale: certifica che possono esserci organizzazioni private che hanno come missione il bene comune e l?interesse generale. Non più solo in una forma organizzativa (le cooperative sociali), ma in una molteplicità di forme organizzative. Un?affermazione non scontata e che può diventare epocale: si disgiunge la categoria di ?pubblico? da quella di ?statale?. Un bene è comune, non perché è perseguito dallo Stato, ma perché la collettività lo interpreta come tale e, attraverso una legge, legittima delle organizzazioni private, non statali, a lavorare per conseguire quel bene. È la missione che conta. Una missione che deve essere individuata chiaramente e di cui bisogna rendere conto in modo trasparente. Questo – lo voglio sottolineare – scardina decenni di statalismo. E spero faccia riflettere quelle amministrazioni pubbliche che stanno immaginandosi vecchie forme di ?partecipazione statale?. Un altro aspetto molto positivo è rappresentato dagli ambiti di intervento. L?articolo 2 – oltre all?assistenza sociale, sanitaria, socio-sanitaria (settori classici d?intervento della cooperazione sociale) – cita fra l?altro l?educazione, l?istruzione, la formazione, la tutela dell?ambiente, la valorizzazione del patrimonio culturale, la ricerca? Tutti ambiti di grande rilevanza. È un altro riconoscimento non scontato: il bene comune è multiforme e come tale è descritto. Forse si sarebbe potuto includere anche l?informazione tra i beni comuni di cui l?impresa sociale si può occupare (anch?essa ha a che fare con il capitale sociale e rappresenta un nodo problematico specificamente nel nostro Paese). Vi sono però anche aspetti sui quali dobbiamo probabilmente continuare a lavorare. L?impresa sociale (il cui controllo dal punto di vista della governance è rimasto alla componente sociale) – si dice all?articolo 12 – deve coinvolgere i lavoratori e i destinatari dell?attività. Ottimo il riferimento alla dimensione multistakeholder, ma forse andava puntualizzato meglio. A chi fa capo questo coinvolgimento? All?assemblea? Al consiglio d?amministrazione? Non è precisato perché si intende lasciar spazio a nuove sperimentazioni? Mi auguro sia così. Infine, un altro aspetto rilevante è quello finanziario. Se si intende puntare all?impresa sociale come uno dei motori dello sviluppo, occorre che questo motore abbia a sua volta benzina disponibile. Sappiamo tutti in che condizioni è l?economia del Paese e quindi è difficile immaginare che lo Stato sia in grado di fare gli opportuni investimenti. Perché allora non rendere più ?appetibile? l?impresa sociale ai soggetti profit? Perché non fissare delle griglie di equilibrata e corretta remunerazione del capitale a favore di chi investe in un?impresa sociale? Questo aiuterebbe a ridisegnare i termini attuali del rapporto fra profit e non profit, e consentirebbe alle imprese sociali di raccogliere più facilmente fondi per lanciarsi in nuovi progetti. Come tutti i nuovi soggetti, anche l?impresa sociale va accompagnata. In questo senso è molto importante che non prevalgano logiche di controllo (che pure deve esserci), ma di promozione e sostegno.


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