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Lavoro e reinserimento, istruzioni per l’uso

Il carcere e il ruolo della cooperazione sociale: le ricette per battere la recidiva esistono. E sono pure piuttosto semplici. Perché la vera sfida del carcere è fuori...

di Redazione

rmai perfino le democrazie del Nord Europa sono contagiate della voglia di punizione. Dobbiamo avere il coraggio di elaborare un nostro schema. Ridurre l?area penale e puntare sulle misure alternative». La sfida lanciata dal presidente della Fondazione Michelucci ed ex direttore del Dap, Alessandro Margara viene raccolta a stretto giro di posta dal mondo della cooperazione sociale e dell?associazionismo giudiziario. «Il sistema per uscire dal pantano c?è: bisogna rendere inutile il carcere», assicura don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII. Come farlo? La via d?uscita si cela dietro le statistiche ufficiali. Fra i detenuti in misura alternativa (affidamento in prova, semilibertà o detenzione domiciliare) appena lo 0,09% commette un reato e solo il 12% torna a delinquere, una volta rimesso in libertà. Per i detenuti intramurari, invece, quest?ultima percentuale si impenna fino a sfiorare l?80%. In Italia, però, a fronte di 52mila persone che hanno avuto accesso ai benefici di legge, sopravvivono nelle 207 affollatissime carceri italiane quasi 62mila persone (circa 20mila oltre il limite regolamentare). E ancora. Il 61,2% dei condannati definitivi sta scontando una pena residua inferiore ai tre anni. Sulla carta avrebbero quindi la possibilità di accedere all?area penale esterna. Questo sulla carta. Gli educatori ministeriali, cui spetta il compito di firmare la cosiddetta ?sintesi? necessaria per accedere al patto trattamentale, da anni infatti soffrono di una clamorosa carenza d?organico. La legge ne prevede 1.376. «Ma in servizio se ne contano 474», nota don Benzi. Una disfunzione che di fatto strozza l?intero sistema penale. Gianni Pizzera, responsabile dell?area Cooperazione sociale e giustizia di Cgm, proprio su questo aspetto ha una carta importante da giocare: «Si chiamano agenti di rete e costituiscono una task force di 20 educatori professionali che da poche settimane lavorano in alcuni istituti lombardi (fra cui San Vittore, Opera, Bollate, Monza, Pavia e Brescia) e hanno il compito di fungere da ponte fra il dentro e il fuori», spiega. Con quali risultati? «Fino ad ora più che soddisfacenti: negli istituti dove è partita la sperimentazione la mole di pratiche d?arretrato si sta esaurendo rapidamente». Con gli agenti di rete è finalmente saltato il tappo della mancanza di personale che impediva ai detenuti di presentare istanze alla magistratura di sorveglianza. Per supportare queste nuove figure è scesa in campo la Regione Lombardia (legge n. 8 del febbraio 2005) con un finanziamento di 600mila euro erogati attraverso bandi cui hanno preso parte diverse cooperative sociali e associazioni. «Interventi di questo tipo dimostrano che quando la comunità locale decide di partecipare alla vita dei suoi penitenziari, le cose migliorano sensibilmente», commenta l?esperto di Cgm. Anche Armando Michelizza, membro del direttivo piemontese di Federsolidarietà, ritiene che la vera partita si giochi negli ultimi dodici mesi di carcerazione. «Ogni giorno mi rendo conto di come, quasi sempre, al disastro della carcerazione segua quello della libertà: un disastro figlio dell?impossibilità di un reale reinserimento sociale per persone totalmente impreparate alla cultura del lavoro e della legalità». Servirebbe quindi una sorta di warm up pre liberazione? «Lo strumento esiste già e si chiama servizio civile nazionale. Basterebbe modificare la legge istitutiva, la numero 64 del 2001, in modo da ammettere ai progetti anche i detenuti cui manca da scontare un anno di pena». Come? Attraverso il regime di semilibertà che «ribaltando il sistema attuale, dovrebbe scattare in via automatica salvo decisioni contrarie del tribunale di sorveglianza», sostiene Michelizza. Che aggiunge: «Al partecipante andrebbe riconosciuto lo stesso trattamento economico degli altri volontari (433,80 euro mensili); questo compenso dovrebbe essere vincolato al mantenimento della famiglia o a una forma di risparmio forzoso, evitando così la piaga di chi esce senza un centesimo in tasca e deve incominciare a violare le norme prendendo il primo bus senza biglietto». Dal Piemonte al Brasile. Arriva dallo stato del Minas Gerais una proposta rivoluzionaria: il metodo Apac – Associazione per la protezione e assistenza dei condannati. Una strategia penitenziaria basata sul principio dell?autogestione che ha ottenuto l?imprimatur dell?Onu attraverso il Prison Fellowship International e oggi è applicato in più di 30 paesi del mondo oltre al Brasile, fra cui Stati Uniti, Cile, Perù, Germania, Olanda, Svezia e Corea del Sud. «L?autogestione sotto la supervisione del personale dell?associazione si realizza in tre regimi: chiuso, semichiuso e libero», ha spiegato il magistrato brasiliano Paulo de Carvalho intervenendo a un recente convegno della Papa Giovanni XXIII. «In queste strutture, a cui accedono i detenuti che ne facciano richiesta, non esiste alcun controllo di polizia, i detenuti lavorano e godono della massima fiducia possibile: chi sgarra viene semplicemente allontanato, ma questo succede molto raramente». E ancora una volta sono i numeri a testimoniarlo: «Il metodo Apac raggiunge il 90% di recupero del condannato, mentre il sistema tradizionale, spendendo tre volte di più, presenta un indice di appena il 15% di recupero dell?uscito».


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