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Una campagna elettorale senza politica estera

Tutte le questioni messe nei programmi e portate alla ribalta dai protagonisti di turno sono questioni sempre interne. L'editoriale di Giuseppe Frangi.

di Giuseppe Frangi

A seguire il dibattito elettorale in corso verrebbe da chiedersi in quale pianeta si trovi il Paese Italia. Tutte le questioni messe nei programmi e portate alla ribalta dai protagonisti di turno sono questioni sempre, invariabilmente ombelicali. Il mondo che ci circonda viene liquidato con formulette di circostanza, adattate all?ideologia di turno: può essere l?atlantismo in varie coloriture per gran parte dell?arco parlamentare o una reminiscenza di vaghi pensieri no global per la Sinistra arcobaleno. Ma la sensazione netta è che la questione che una volta si chiamava ?politica estera? sia stata del tutto derubricata dall?agenda di una politica in affannosa ricerca di consensi. L?Italia è un Paese senza più un ruolo e senza neppure più l?ambizione di averlo.Eppure quello che sta accadendo in tante aree che un tempo registravano l?iniziativa e l?influenza del nostro Paese dovrebbe essere sufficiente per far capire a chi è destinato a prendere le redini del Paese, quanto sarebbe meglio metterci testa e farsi un pensiero in proposito. Oggi invece accade che per sentire ragionamenti pubblici su quanto sta accadendo a Gaza dobbiamo contare sull?iniziativa dei giovani ebrei e dei giovani musulmani che si incontrano a Milano in cerca di punti di giudizio comune (come racconta Paolo Branca, che è stato testimone del dialogo, a pagina 17). Quanto al nuovo dramma che rischia di mettere in ginocchio tanti Paesi africani per il rialzo impazzito dei prezzi agricoli, non sembra disturbare i sonni di nessuno. Eppure se la situazione non rientra in una sopportabile normalità è facile prevedere nuovi flussi di clandestini verso il nostro Paese (allora la questione rientrerà nelle agende della politica: vedi alla voce ?sicurezza?).Ma c?è un altro fronte che ci dovrebbe stare molto a cuore. Ed è quello che è stato portato alla ribalta da un?iniziativa di Pax Christi in vista della prossima Pasqua: nell?Iraq ?spianato? dalla guerra benedetta dall?Occidente che si proclama cristiano, i cristiani vivono in condizione disperata. Proprio nei giorni scorsi un vescovo caldeo, Faraj Rahho, è stato rapito a Mosul appena uscito dalla chiesa dove aveva guidato la Via Crucis. Nella stessa città lo scorso anno, avevano perso la vita un sacerdote e tre diaconi. In Iraq prima dell?inizio della guerra c?erano 800mila cristiani. Oggi questa presenza è ridotta al lumicino: chi ha potuto se ne è andato, preferendo la vita da profugo in Giordania o Siria. Chi non si è convertito, resiste, nella povertà. Alla delegazione di Pax Christi che ha visitato il mese scorso le comunità cristiane irachene (era la prima delegazione occidentale dall?inizio della guerra) quei credenti hanno raccontato il loro coraggio e la loro disperazione. «La nostra religione viene confusa con quella degli americani», hanno spiegato. «Vogliono sbarazzarsi di noi».Ma sbarazzarsi di loro vuol dire mettere la parola fine a una storia di convivenza durata centinaia di anni; consegnare definitivamente un altro pezzo del nostro pianeta all?intolleranza e al fanatismo. Siamo proprio sicuri che l?Italia non abbia nulla da dire in proposito? Dalla politica certamente non arriveranno risposte. Tocca a noi tenere in agenda queste questioni decisive per la nostra vita e per la nostra dignità.


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