Cooperazione & Relazioni internazionali

Terrorismo: tutti contro Sofri

Terrorismo e lotta armata negli anni '70

di Redazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Sergio Segio sul dibattito seguito all’intervento di Adriano Sofri su Il Foglio dello scorso 11 settembre.

di Sergio Segio

Tutti contro Sofri. O quasi. Basterebbe questo per esprimere vicinanza all’ex leader di Lotta Continua. Se non altro per sottrarsi alla consueta ressa di chi corre in soccorso del vincitore.
La mia − presumo scomoda − solidarietà oltre che da antica amicizia e stima è motivata anche da una ragione personale. Infatti anch’io, sapete, non sono mai stato un terrorista. Omicida politico e militante della lotta armata sì, ma non terrorista. La definizione che di questa “categoria” fornisce Sofri non mi convince, poiché credo che il carattere di indiscriminatezza che appunto caratterizza il terrorismo comporti il fatto che esso non si rivolga verso “parti nemiche” e non ricerchi consensi: l’incertezza dell’attribuzione, o talvolta, il sapiente mascheramento fanno parte della strategia del terrore, che si indirizza indistintamente verso chiunque. Come appunto anche la strage di piazza Fontana ha dimostrato. Semmai sono le guerriglie o le lotte armate che si rivolgono contro le parti considerate nemiche e operano cercando di allargare il consenso in quelle reputate amiche. Normalmente, le lotte armate rivendicano le proprie azioni, mentre il terrorismo mistifica e nasconde le paternità degli attacchi; i quali sono quasi sempre stragi non singoli e mirati obiettivi.
Mi ritrovo semmai in una considerazione espressa da Francesco Cossiga riguardo gli “anni di piombo”: «Piano con i “terroristi”. Rileggendoli ora, quei dati, e considerando che sono state sei o settemila le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi, va ricordato che aveva ragione Moro: ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese» (articolo a firma Gian Antonio Stella, in “Sette”, magazine del “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2002).
Ma evidentemente non si tratta di questione terminologica o scolastica. Davanti e sopra le definizioni stanno i morti, le famiglie, le sofferenze e i lutti.
La puntigliosità nominalistica − epperò fondata nella qualificazione giuridica del reato contestato e nella sentenza che lo ha condannato − su cui Sofri insiste ancora oggi sul “Corriere della Sera” non deve impedire di cogliere un punto centrale da lui sollevato: riconoscere anche Pinelli (aggiungerei: i tanti Pinelli, gli Zibecchi, i Roberto Franceschi, i Franco Serantini…) come vittima. Scrive Sofri: «Penso a Pinelli come a una vittima del terrorismo di stato, l’ultima vittima della strage di Piazza Fontana». Io direi invece che come Pinelli è stata la diciasettesima vittima della strage, Calabresi ne è stata la diciottesima. E poi ne sono venute altre, inanellate in una tragica sequenza di morti solo in apparenza scollegate e distinte: Giangiacomo Feltrinelli, Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi, Giuseppe Ciotta, Emilio Alessandrini. E tanti, troppi, ancora.
Del libro degli anni Settanta in tutta evidenza non è ancora stata voltata l’ultima pagina. Anche perché i diversi capitoli mostrano parecchi buchi. Vi sono pagine strappate che vanno ricomposte, pagine nascoste che vanno scoperte e inserite per poter leggere il libro per intero, e poterlo alfine archiviare, assieme a quel Novecento di cui è stato parte.
Quella storia va letta sino all’ultima riga. Ma partendo dall’inizio.
Ad esempio, quando il direttore di Repubblica, intervenendo a una trasmissione televisiva per presentare il libro di Mario Calabresi, dice testualmente: «La questione del terrorismo in Italia è chiarissima: è qualcosa che è impazzito nella metà del campo della sinistra, nella metà del campo del comunismo, ibridato con alcune istanze radicali», dice una verità parziale e anzi fuorviante.
La storia, infatti, ha un carattere processuale dal quale non si può seriamente prescindere. Non si può fare a meno, dunque, di ricordare − e di informare chi non c’era − come è cominciata l’intera vicenda della degenerazione armata e della strategia della tensione. Invece, negli ultimi anni, è stato espunto dal dibattito pubblico ogni riferimento su cosa è venuto prima di quell’impazzimento di cui ha parlato Ezio Mauro.
Vale a dire le stragi, le compromissioni con esse di pezzi dello stato, le degenerazioni istituzionali, i tentativi di golpe.
Uno dei fondamentali punti di snodo, se non il punto di inizio, è la strage di piazza Fontana. E la morte di Pino Pinelli. In un quadro che viene costantemente rimosso, ma che è decisivo per capire: vale a dire il contesto internazionale della Guerra fredda.
 
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Sofri vuole allontanare da sé, e da Lotta Continua intera, l’accusa di terrorismo, perché tra questo e la violenza «un confine c’era». Penso sia una innegabile verità. Anzi, penso che si via stato un confine tra violenza organizzata (quella teorizzata e praticata anche da Lotta Continua) e lotta armata. Tanto è vero che chi in Lotta Continua a un certo punto decise che bisognava passare alla lotta armata, dovette uscire da quell’organizzazione. Io, tra i tanti altri. Decisione sciagurata e sicuramente evitabile. Ma forse più facilmente evitabile se l’uso della violenza politica non fosse stato così a lungo (e ben prima ancora della nascita di LC e della sinistra extraparlamentare) contemplato ed enfatizzato, moralmente e culturalmente accettato, promosso e organizzato.
Qui mi pare abbia ragione Erri De Luca quando, all’intervistatore che gli domanda se anch’egli avrebbe potuto scegliere la lotta armata, risponde: «Avrei potuto, sì, ma guarda che noi non facevamo una lotta disarmata. La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica». Aggiungendo poi a proposito delle armi possedute da LC: ««Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare» (Intervista a Erri De Luca di Claudio Sabelli Fioretti, Magazine del “Corriere della Sera”, 9 settembre 2004).
È questa la differenza. Per gli uni le armi (e gli omicidi politici) erano strumento programmatico, e via via esclusivo, da rivendicare. Per gli altri strumento occasionale, da sottacere. Una piccola-enorme differenza. Richiamarla, com’è giusto, presupporrebbe riconoscere – e Adriano ora onestamente lo fa − che anche i “terroristi”, vale a dire i lottarmatisti, non erano mostri caduti dalla luna, ma erano parte, se non proprio prodotto, della storia della sinistra, e anche di Lotta Continua. Non erano belve sanguinarie ma persone allucinate dall’ideologia e progressivamente disumanizzate dai mezzi usati se non dagli obiettivi prefissati.
A lungo, pressoché tutta la sinistra ha preferito invece negare ogni parentela, rivendicando un solco ampio, un insuperabile fossato tra sé e chi prese le armi. Quel solco vi è stato, ma era assai sottile. In alcuni anni e momenti, sottilissimo, come il ghiaccio sui laghi in primavera. E questo vale per gli anni Cinquanta e Sessanta, non solo per i Settanta.
L’omicidio di Luigi Calabresi, al di là di come volemmo interpretarlo noi (intendo noi che demmo vita a Prima Linea), vale a dire l’atto fondativo, l’innesco di un percorso teso verso la lotta armata e la guerra civile, ebbe invece intenzioni puramente e squisitamente “giustizialiste”, di giustizia alternativa tesa a supplire quella inadempiente, complice e compromessa dello stato. Una “giustizia terribile”: quella della pena di morte, che oggi reputo di per ciò stesso il contrario, la negazione della giustizia. Sempre e comunque, verso chiunque si rivolga, colpevole o innocente che sia: una consapevolezza che costituisce un vaccino morale e culturale di cui tutti, ma proprio tutti, allora eravamo privi.
E mi pare sia questo, questo ristabilimento di differenze, ciò su cui oggi insiste Sofri. A ragione. Ha ragione. Pure e però penso che l’omicidio del commissario Calabresi abbia costituito un punto di non ritorno, che continua a essere sottovalutato. Non solo perché alla uccisione di un uomo non c’è rimedio, e questo sì crea un solco tremendo. Ma perché ha rappresentato il primo salto dalle parole di morte alle azioni di morte, dalla morte come incidente, per quanto prevedibile, alla morte come paziente costruzione. Come intenzionalità. Lì si è mandato in frantumi un tabù non più ricomposto e forse non più ricomponibile.
Su questo, su una riflessione vera e approfondita sui nessi tra violenza, opzione rivoluzionaria, lotta armata, terrorismo e potere bisognerebbe forse soffermarsi. Dopo il 1989, la sinistra (tutta, non solo quella estrema) ha archiviato il Novecento, limitandosi a chiudere in un cassetto teorizzazioni e pratiche che pure le sono appartenute. Ma ciò che viene rimosso anziché essere elaborato è destinato a ripresentarsi, ad alimentare non detti, omertà, falsificazioni.
 
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È un triste segno dei tempi che a ricordare la vicenda di un anarchico trattenuto illegalmente in questura e morto precipitando da una finestra e a denunciare un doppiopesismo nella memoria e nel cordoglio pubblico sia lasciata sola la persona che si trova nella posizione più scomoda per farlo, Adriano Sofri.
Certo, le memorie sono lacerate, le ferite sono ancora aperte, il sangue irrisarcibile, i torti e le ragioni acclarati dalla Storia. Eppure, lo sforzo per riconoscere anche il dolore degli altri è la porta stretta attraverso cui una società deve passare per superare lacerazioni e ferite. Se non sa farlo, se non vuole farlo − e anche il dibattito di questi giorni ne è segnale eloquente − quel passato è destinato a riviverlo continuamente, senza averne assimilato alcun insegnamento. La pietas per le vittime, per tutte le vittime, si fonda sul ricordo e sul rispetto non sull’incapacità di elaborazione.
Ogni popolo guardi al dolore dell’altro e non solo al proprio e sarà pace, ha detto il cardinal Martini a proposito del Medio Oriente. Fatti i necessari ed evidenti distinguo, credo che questo valga anche per le lacerazioni degli anni Settanta: solo questa considerazione e questo sentimento possono fondare la riconciliazione e un reale superamento.


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