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Il cemento e l’aviditàball’assalto di Milano

verso l'expo Antonio Monestiroli, già preside di Architettura

di Redazione

A sei anni dall’evento
che la porterà all’attenzione del mondo, sul destino
della città pesa il cinismo di tanti operatori.
«Si fanno i progetti per valorizzare le aree,
se e come vengono costruiti non interessa a nessuno». L’addolorato j’accuse
di uno dei padri nobili dell’architettura milanese
A ndare, andare per tornare. Usciamo dal cancello della vecchia “sciostra”, uno di quegli edifici a ballatoio lunghi e stretti dove si producevano e si conservavano le merci milanesi, che si affaccia sul Naviglio pavese, con in mente queste parole. Sono quelle che Antonio Monestiroli ci ha appena detto nel suo studio, e che potrebbe rivolgere a uno dei suoi tanti studenti. Perché «in Italia oggi non c’è spazio per l’architettura».
È tra i maggiori architetti italiani, si è formato alla scuola milanese di Ernesto Rogers, suo maestro d’elezione insieme a Ignazio Gardella e Aldo Rossi. Oggi insegna alla facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, di cui è stato il preside fino al luglio scorso.
Vita: Dopo decenni di impasse, finalmente a Milano si muove qualcosa.
Antonio Monestiroli: Si muove qualcosa in peggio. Con delle contraddizioni evidenti. Ultima la proposta di Masseroli (assessore allo Sviluppo del Territorio, ndr ) di portare il numero degli abitanti da 1,3 a 2 milioni, che mi sembra davvero strana. L’assessore propone di costruire case a basso prezzo per giovani, famiglie numerose, lavoratori e studenti fuori sede. La gente è andata fuori Milano non soltanto perché le case sono troppo care, ma anche per vivere meglio. Non tornerà mai ad abitare a Milano. Città come Parigi, Londra o Barcellona hanno una densità abitativa maggiore di Milano, eppure non sono certo ritenute di bassa qualità. La qualità della vita dipende dalla qualità ambientale, ma a Milano dov’è la qualità ambientale? Non c’è più nessuno al mondo che dice che la città moderna debba essere monocentrica. Ormai il modello di crescita della città è il policentrismo. Solo che c’è un problema politico: vuoi che il Comune di Milano accetti di far parte di un sistema policentrico? E poi chi lo governa? È una stagione tutt’altro che felice.
Vita: Perché la proposta di Masseroli contraddice il policentrismo?
Monestiroli: Il policentrismo va inteso a scala regionale, dentro la città è un policentrismo finto. L’unico modo di realizzare un vero policentrismo è dare alla Regione le deleghe all’urbanistica. Ne guadagnerebbe molto anche Milano.
Vita: E perché non lo si fa?
Monestiroli: Milano non vuole perdere il potere sul suo territorio. Per questo si potrebbe pensare a un organo di governo regionale di cui Milano, essendo il comune più grande, faccia da coordinatore. L’urbanistica è un tema di ambito regionale, come la sanità e i trasporti. Dove va la nuova fiera o la cittadella della giustizia lo deve decidere il Comune o la Regione? Va saltato anche il confine della Provincia perché i poli sono a scala regionale.
Vita: Come immagina la città policentrica?
Monestiroli: Milano deve crescere creando relazioni ampie. Il modello è l’Olanda: è grande come la Lombardia e ha lo stesso numero di abitanti. Quando vado a insegnare a Delft, alla sera vado a cena ad Amsterdam, e poi a dormire a Utrecht. Pensa che città straordinaria sarebbe la Lombardia dai laghi di Como, Varese, alla campagna di Pavia, Cremona…! Si potrebbe abitare sul lago e lavorare a Milano.
Vita: Quali i primi passi da compiere in questa direzione?
Monestiroli: Il rafforzamento delle infrastrutture. Perché il policentrismo esiste se c’è un sistema efficiente di trasporto pubblico. Bisogna individuare le direttrici di sviluppo: avere sostenuto che il nord-ovest è una direttrice che culmina con Varese e Malpensa, è stata una scelta giusta. Questo vale anche a est, fino a Brescia. Ma a Brescia bisogna arrivarci col treno in 30 minuti, non in un’ora come adesso.
Vita: Perché gli architetti non hanno più l’autorità per indirizzare il progetto della città?
Monestiroli: Perché la soluzione razionale va in conflitto con gli interessi economici degli operatori. Ma qual è la follia più folle di fare un parcheggio sotterraneo in piazza Sant’Ambrogio? Eppure in certe stagioni si è raggiunto un compromesso virtuoso tra politica, committenza privata e architettura, e si è riusciti a far coincidere l’idea di città, l’interesse economico, una cultura del costruire.
Vita: Quando ci sono stati questi momenti felici?
Monestiroli: Dopo la guerra, quando la collettività ha capito di dover partecipare a un progetto comune, e ci si è messi insieme anche dal punto di vista politico. Bisognava ricostruire. Il progetto era progetto sociale. E poi la borghesia industriale degli anni 50 aveva una sua cultura: i clienti di Gardella, Albini, Rogers erano persone colte. Oggi il sentimento prevalente fra gli operatori è il cinismo. Si fanno i progetti per valorizzare le aree, se e come vengono costruiti non interessa a nessuno. Come si fa a parlare di architettura in queste condizioni? L’architettura deve essere amata perché la si pratichi. Se non c’è qualcuno che la difende a tutti i costi, ci si ferma davanti a questioni economiche. In Spagna c’è un’istituzione come il Collegio degli architetti, un organismo autorevole che fa incontrare architetti e cittadini. In Italia un luogo così non esiste. In Italia in questo momento non c’è entusiasmo sociale né partecipazione civile. Per uscirne ci vuole un lavoro dalla base, dalle scuole elementari. È come se fosse in crisi quello “spirito del tempo” che, secondo Mies van der Rohe, l’architettura deve incaricarsi di esprimere.
Vita: Può darsi, però Mies a un certo punto dalla Germania se n’è andato. Anche se non voleva, se n’è andato. E lei se ne andrebbe dall’Italia?
Monestiroli: Se fossi un giovane architetto andrei via. Ai miei figli consiglio di andare via. Un architetto serio oggi in Italia non farà niente di buono per molto tempo. Questo è il tempo degli agenti pubblicitari.
Vita: Andarsene equivale ad abdicare.
Monestiroli: È giusto sentire questo orgoglio civile, però l’unica alternativa ad andarsene è avere la forza di organizzare un minimo di opinione. Non dico contestazione, ma un gruppo di opinione che venga ascoltato. Non è facile, il rischio è che nessuno ti ascolti. Allora è meglio andare all’estero, e poi dall’Italia si guarderà là e si dirà: «Allora è possibile costruire delle belle cose!».
Vita: Andare per tornare…
Monestiroli: Sì, andare per tornare. Io credo che in questo momento in Italia non ci sia spazio per l’architettura. A 40 anni ero sicuro che si potesse costruire una coscienza civile. Invece la politica mi ha deluso, da entrambe le parti: ha fatto credere di avere un mandato da svolgere e in realtà non l’ha svolto. Che proposta è stata fatta per la città dalla sinistra? Nessuna, al massimo un po’ più di verde… Quando, nel 91, con l’assessore all’Urbanistica Roberto Camagni lavoravamo al progetto Garibaldi-Repubblica, i comitati di quartiere litigavano per un metro quadro di verde. Noi dicevamo loro: «Guardate che questo non è il vostro giardino, questo è il centro direzionale della Lombardia». Paghiamo uno sguardo corto sul futuro della nostra città. L’urbanistica richiede invece uno sguardo molto lungo. Sono spaventato quando sento parlare di Expo in queste condizioni culturali e di interessi economici: è difficile che si riesca a fare qualcosa di buono.
Vita: Le facoltà di Architettura potrebbero offrire un contributo culturale?
Monestiroli: Sicuramente, a condizione che non lavorino a favore di questo sfacelo.
Vita: In passato era diverso?
Monestiroli: Fino a 30 anni fa gli schieramenti erano chiari. Se lavoravi per le cooperative edilizie sapevi che avevano qualche interesse sociale in più del singolo operatore. Le cooperative hanno fatto delle cose eccellenti: tutti i quartieri che sono passati alla storia dell’architettura – quelli di Ridolfi, di Quaroni, di Figini e Pollini – avevano alle spalle una cultura cooperativa e non speculativa. C’erano la legge Fanfani, il progetto Ina Casa, c’era una vera cultura di architettura sociale.
Vita: Oggi si parla di housing sociale. È una strada percorribile?
Monestiroli: L’inglese ormai aggiusta tutto. Ma la verità è che non si crede veramente in questo progetto. L’amministrazione concede a una società immobiliare una certa quantità di edificazione, a patto che una parte venga destinata a edilizia convenzionata. Meglio di niente. Ma si tratta sempre di “una parte di un’altra cosa”, come fosse un pegno da pagare, e il risultato è negativo. L’architettura è espressione di civiltà. Se lo vai a spiegare agli operatori, ti ridono in faccia. Quando io parlo con loro tengo sempre nascosta la qualità più bella dell’architettura perché ho paura che mi prendano per matto e mi tolgano l’incarico.
Vita: Però poi i luoghi della città più amati e più frequentati sono sempre i luoghi civili.
Monestiroli: Sono i luoghi in cui ci si riconosce. La bellezza dell’architettura si raggiunge quando si riconosce il senso dei luoghi e degli edifici. Se tu vai in una via storica di Milano riconosci tutto e sai dove sei, mentre se vai in un quartiere periferico costruito dopo gli anni 70 ti perdi, non riconosci niente: non esistono più le strade, non esistono più le piazze, non esiste più la casa in quanto tale. Bisognerebbe che gli architetti ragionassero sul significato dei temi di progetto, ma oggi non lo fa più nessuno.
Vita: A Citylife si riconoscerà qualcosa?
Monestiroli: Citylife andava fermata già due anni fa, ma non è stato possibile. Adesso hanno fatto qualche modifica al progetto originario, aggiungendo anche un brutto museo. E poi c’è tutto l’intorno che noi non conosciamo perché le immagini sui giornali rappresentano sempre i tre grotteschi grattacieli.
Vita: C’è qualche buon progetto realizzato recentemente a Milano?
Monestiroli: Fra le cose più recenti la nuova sede del Sole24Ore di Renzo Piano: se tutti lavorassero così, sarei meno pessimista. Il suo progetto per l’area della Fiera era un bel progetto. Oppure l’ampliamento dell’Università Bocconi dei Grafton Architects: anche se il modo di costruire per blocchi denuncia una volontà più scultorea che architettonica – e io non credo nell’architettura-scultura – credo sia un progetto di qualità. Poi le residenze di Cino Zucchi al Portello, in cui si cerca di dare alla casa un carattere: se ne riconoscono le parti, le logge, eccetera. Si tratta anche qui di un’architettura colta, diversa dall’architettura incolta che è la stragrande maggioranza di quel che si costruisce oggi a Milano.
Vita: Purtroppo in certi casi si stanno rovinando capolavori del passato. Penso alla metropolitana rossa di Albini…
Monestiroli: La MM di Albini l’aveva già rinnegata la linea gialla, nel senso che l’aveva del tutto contraddetta nella sua eleganza, nella sua straordinaria qualità formale. Hanno manomesso via Albricci 8 che è la più bella casa di Asnago & Vender a MIlano: all’ultimo piano, dove c’erano le finestre senza serramenti e si vedevano le terrazze, hanno costruito un piano in più. Ma questo perché succede? Perché da una parte c’è la spinta del privato, e dall’altra non c’è la consapevolezza di quello che viene rovinato: l’amministratore non conosce il valore di quella casa e quindi un piano in più – lo fanno tutti, la legge lo consente – che cosa cambia?

Ci lasciamo con molte domande ancora aperte, e con un’idea del futuro di Milano poco ottimista. Ma anche quando il tono sembra disilluso, la speranza flebile, c’è sempre nelle sue parole una specie di riscatto, e l’indicazione di un’alternativa: «A meno che…», «Eppure…», «Si potrebbe…». In questo Antonio Monestiroli tradisce tutta la sua milanesità, l’appartenenza a una cultura razionale e anche pratica, che parte dalla realtà concreta delle cose – anche quando vanno male – e che è capace di trasformarla in progetto, in prefigurazione di una realtà migliore. Andare sì, ma per tornare.


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