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Welfare & Lavoro

Psichiatria decentrata per lo stress da migranti

Un'esperienza innovativa dedicata agli stranieri

di Sara De Carli

Sono attivi a Milano dal 1999. Con un modello di intervento molto originale, che integra il lavoro sociale con il setting clinico. «Ma gli immigrati godono di ottima salute mentale. Sono poche le aree a rischio», spiega Marco Mazzetti, psichiatra
Si chiama Terrenuove, ed è davvero, come dicono le Scritture, caparra del futuro che verrà. Il nome di questa cooperativa sociale milanese in realtà non allude al testo biblico, ma al fenomeno migratorio: si occupa infatti di un segmento molto particolare, la psichiatria per immigrati.
Piccoli numeri, competenze ultra-specifiche, bisogni assolutamente nuovi, zero pregresso. Dovendo cominciare tutto dall’inizio, i dieci anni di lavoro di Terrenuove hanno prodotto un modello di intervento (ma anche di welfare) originale, basato sul principio che, spiega Dela Ranci, la presidente, «i servizi non ci inviano le persone, ce le accompagnano. Perché noi non prendiamo in carico gli individui, ma gli individui insieme alla loro rete di servizi: il lavoro sociale è integrato nel setting clinico».

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Terrenuove è nata nel 1999 da un gruppo di professionisti (medici e psicologi, tutti psicoterapeuti) attenti alle problematiche sociali emergenti. Come i problemi di salute mentale dei rifugiati hutu e tutsi, che cinque anni dopo il genocidio rwandese qui in Italia avevano sì trovato accoglienza per le necessità della vita quotidiana, ma non un sollievo rispetto ai segni lasciati dalle torture.
Proprio i rifugiati sopravvissuti alla tortura sono diventati focus specifico dell’intervento di Terrenuove, insieme ai minori: che migrano soli, di seconda generazione, che arrivano in Italia alle soglie dell’adolescenza, dopo anni ed anni vissuti lontano dai genitori.
«La popolazione immigrata ha una resilienza straordinaria, gode di un’ottima salute anche dal punto di vista mentale, però ci sono alcune aree a rischio», dice Marco Mazzetti, psichiatra della cooperativa specializzato nell’accompagnamento dei migranti sopravvissuti a tortura. «Ovviamente nel caso dei rifugiati, dove la migrazione è stata forzata, l’evento migratorio è un trauma psicologico enorme. Per non parlare dei casi di tortura: gente che la notte si impedisce di dormire per il terrore di sognare le sessioni di tortura, cosa che regolarmente accade. L’intervento psichiatrico qui è prioritario, perché queste persone devono potersi ricostruire, prima di pensare a qualsiasi percorso di integrazione».
Accanto a loro, i problemi psicologici dei più giovani o quelli legati ai rapporti genitori-figli. Ma anche, soprattutto di recente, depressioni gravi e crisi d’ansia legate alla perdita di lavoro e alla preoccupazione di venire espulsi, non potendo rinnovare il permesso di soggiorno: «C’è un contesto legislativo patogeno, che crea uno stress psicosociale enorme», sottolinea Mazzetti.

La rete sul lettino
In dieci anni, qui sono state aperte più di 500 cartelle, per 45 nazionalità diverse: tanta Africa per i rifugiati, America Latina e un po’ di Cina per le famiglie, Marocco ed Egitto per i minori soli. Inviati principalmente dai servizi sociali di Milano e dintorni, ma spesso anche dall’altro capo d’Italia. Per tutti, la necessità di una psichiatria capace di decentrarsi, di accettare altri modelli culturali di spiegazione della realtà, di curare le persone all’interno del loro contesto di origine. Nell’etnopsichatria, insomma, il sociale entra d’obbligo a tagliare trasversalmente il sanitario.
È questo l’elemento innovativo del modello di Terrenuove. Lo chiamano “gruppo di rete”. Perché se il servizio è in convenzione con la Asl di Milano, finanziato dalla legge Turco Napolitano, a fare la differenza è il fatto che a Terrenuove il paziente arriva portandosi dietro tutto un corollario di persone: sono gli operatori del territorio impegnati, a diverso titolo, nell’accompagnarne l’integrazione.
Psichiatri e medici dei servizi sanitari territoriali, innanzitutto, «perché», precisa la Ranci, «noi non vogliamo essere vicarianti, abbiamo sviluppato competenze di avanguardia ma ora il nostro obiettivo è diffonderle, in modo che gli immigrati vengano inclusi entro normali e appropriati percorsi di cura». Ma anche assistenti sociali, insegnanti, operatori dei centri per l’impiego, educatori delle comunità per minori, personale dei centri di prima accoglienza? tutti sul lettino. «Buona parte dei nostri interventi sono fatti non sui pazienti ma con l’équipe che si occupa dei pazienti», spiega Mazzetti. «L’obiettivo è arrivare a fare solo supervisione».


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