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Cooperazione & Relazioni internazionali

Rom, in Slovacchia il ghetto fa scuola

Le discriminazioni nel mirino di Amnesty

di Christian Benna

Sono il 10% della popolazione, ma il 60% dei loro
bambini viene spedito nelle classi speciali. Ed è
soltanto l’inizio di una vita ai margini da Kosice, Slovacchia
Anche gli zainetti dei bimbi rom, come quelli dei colleghi di tutta Europa, sono pesanti da portare in spalla. Quello di Viktor è stracolmo di patate, mentre il borsone a tracolla di Ladislav è zeppo di verdure appena comprate al mercato. Monika, al pari di tante altre mamme rom in Slovacchia, non manda più i suoi figli a scuola. E lo fa perché i suoi ragazzi sono i più somari di tutto il paese. Anzi, peggio. Incompatibili con la disciplina, disadattati, afflitti da problemi mentali, incapaci di sedere in un banco con i “gadshe”, come i gitani chiamano i “bianchi”. Lo ha stabilito, non per decreto ma nei fatti, il sistema scolastico nazionale che spedisce il 60% dei bimbi rom nelle scuole speciali, quelle per allievi con problemi di adattamento e portatori di handicap mentali.
L’85% degli studenti in queste strutture sono di etnia rom. Una politica di segregazione fin dall’infanzia che ha sollevato le severe proteste di Amnesty International, fresca di pubblicazione di un report nel quale denuncia la strisciante forma di apartheid negli istituti slovacchi. «Il risultato di queste politiche discriminatorie è una condanna a vita di povertà ed emarginazione per migliaia di giovani rom», ha affermato David Diaz Jogeix, vicedirettore di Amnesty per Europa. Il tasso di abbandono scolastico, prima dei 13 anni, è infatti altissimo tra i ragazzi rom e supera il 40% degli iscritti.
I rom in Slovacchia sono il 10% della popolazione, circa 500mila persone che sopravvivono in ghetti e periferie nell’est del Paese. Ad esempio a Pavloce nad Hom, a 10 chilometri dal confine con l’Ucraina, più del 50% dei 4.500 abitanti sono di etnia gitana. Ci sono due scuole elementari, una “tradizionale”, l’altra speciale. In quest’ultima gli studenti rom sono il 99,5% del totale dei 200 studenti. Ad Amnesty, e ad altre associazioni umanitarie, la discriminazione appare lampante.

Casinisti
Jarmila Vanova è una giornalista rom. È una delle cinque ragazze che compongono il Mecem, l’agenzia multimedia che si occupa di raccontare al resto del Paese il pianeta zingaro. Lei ha tre figli. «Ci risiamo. Anche quest’anno la pagella è stata una sentenza. Due dei miei figli non funzionano. E dovranno frequentare i corsi delle scuole speciali, dopo un’esperienza fallimentare negli istituti per ragazzi “normali”». Jarmila è una donna che non molla la presa tanto facilmente. I muri da abbattere nella sua vita sono stati tanti. Quelli della comunità rom, chiusa nelle sue tradizioni, che vede la donna confinata tra le pareti domestiche. E quelli della società “bianca” slovacca, incline a trasformare il multiculturalismo in un mondo a caste (oltre alla minoranza rom ci sono 500mila slovacchi-ungheresi e la lingua magiara è stata appena bandita dai luoghi pubblici). Quarant’anni e quaranta sigarette al giorno, Jarmila si è diplomata, segue corsi all’università e scrive come un ossesso su tutte le barriere, fisiche e virtuali, che lo Stato prova ad ergere tra le varie comunità. «I miei figli sono dei casinisti, ma non sono il disastro che provano a dipingere i professori».
L’ultima mossa del premier Robert Fico, prima di passare il potere a Iveta Radivoca, anch’essa alla guida di una coalizione di centrodestra, è stato il disegno di legge per dare vita a collegi obbligatori per bimbi rom. Un tentativo, per ora, naufragato tra le proteste degli attivisti e grazie al crescente impegno di Amnesty.
A Kosice, seconda città del Paese, il cuore orientale della Slovacchia, sorgono come funghi ong che operano nei campi e nei quartieri rom. Il giro quotidiano di Vladimir per le strutture seguite dalla sua organizzazione è un passaggio all’inferno. Strade di fango, case di lamiera senza vetri, montagne di rifiuti, il cognac che passa di mano in mano tra grandi e piccini. «Lavoro da dieci anni nel sociale. Prima in Irlanda poi in Germania al recupero degli skinhead condannati per violenze. Ma qui tra i rom in Slovacchia è una battaglia persa. Non esistono le regole basiche di igiene, non le conoscono. E se le insegni le dimenticano il giorno dopo. Gli anni del socialismo hanno poi devastato culture e tradizioni. Una volta i rom erano giostrai, artigiani, allevatori di cavalli. Il regime li ha sbattuti in fabbrica. Questi sono i risultati, tanto che oggi non sanno più fare niente se non chiedere soldi al governo, pieno zeppo di formazioni ultranazionaliste, che invece non fa altro che tagliare i fondi». La rappresentanza politica è stata una farsa. Nel corso delle varie tornate elettorali, si sono presentati 25 partiti rom, frammentazione estrema. Solo un deputato è stato eletto, e in pochi mesi è stato incriminato per corruzione. «I rom votano in massa. Perché vendono le loro preferenze per un tozzo di pane. Il mio lavoro qui sembra proprio inutile», dice Vladimir.

In trincea
Slava Macakova è la direttrice di Etp Slovensko. Una delle ong in trincea quotidiana nei campi rom: dal Lunik IX, la piccola Bagdad di Kosice, una dozzina di palazzoni sventrati abitati da soli rom, fino ai piccoli comuni al confine con l’Ungheria. Tra i finanziatori di Etp Slovensko ci sono soprattutto privati, come Enel, che in Slovacchia ha comprato il 66% di Slovenske Electrame, a capo di due centrali nucleari. «La crisi economica ha costretto lo Stato ha chiudere i rubinetti per i progetti di sviluppo tra le comunità rom. Ci arrangiamo come possiamo. Dove siamo presenti abbiamo allestito piccole scuole, anche bilingui se nelle zone a maggioranza ungherese, per sopperire al problema delle special schools. Abbiamo smesso di donare e offrire contributi. Oggi mettiamo in condizione le persone, che lo vogliono, di migliorare la propria vita, attraverso l’autocostruzione di case e programmi educativi. Seppur a piccoli passi, le cose migliorano». E gli zaini dei piccoli rom cominciano ad essere più leggeri.


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