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Marina Silva, la verde che non t’aspetti

editoriale

di Giuseppe Frangi

Portare i Verdi al 20% dei voti in una delle più grandi democrazie del mondo è certamente una grande impresa. Marina Silva in Brasile ci è riuscita, superando tutte le aspettative e mettendo in crisi la candidata predestinata a prendere il posto di Lula, Dilma Rousseff. La Silva era stata ministra dell’Ambiente di Lula, ma poi due anni fa aveva rotto, in polemica con le politiche anti ambientaliste in Amazzonia del presidente operaio. In realtà il profilo di Marina Silva è più complesso. In lei si incrociano tante identità, compresa quella di appartenenza alla Chiesa evangelica più grande del Brasile, le Assemblee di Dio, che ha 11 milioni di fedeli e che molto ha contribuito al suo exploit.
Nel programma di Marina Silva c’erano poi due elementi sorprendentemente anti schematici: la prima era l’assoluta contrarietà all’aborto; la seconda un’idea di lotta alla povertà basata più sul principio di educazione che su quello dei sussidi. È strano vedere come questa discepola prediletta del grande Chico Mendez abbia saputo reinterpretare l’eredità ricevuta. Eppure in questo coraggio della discontinuità sta la sua forza e forse anche il messaggio che lei lancia a chi sogna una politica diversa.
Spiace che questa discontinuità non sia stata registrata ad esempio nelle reazioni dell’ambientalismo italiano, che rischia di stare eternamente prigioniero di una politica vecchia, incapace di sottrarsi ai soliti copioni che non affascinano più nessuno.
Eppure anche entrando nel merito delle scelte di Marina Silva, si troverebbero buone ragioni per smarcarsi e costruirsi finalmente un’identità nuova capace di conquistare consensi. Prendiamo la questione dell’aborto. Certamente è una posizione che Marina Silva ha assorbito dalla propria appartenenza religiosa, ma che giustamente non sente per nulla in contrasto con la propria “fede” ambientalista. Lo stesso principio di realtà che porta a difendere e rispettare l’ambiente e gli equilibri della natura, porta a rispettare ugualmente la naturalità della vita concepita (niente di nuovo: in Italia Alex Langer non aveva pensato cose molto diverse). Anche sulla lotta alla povertà Marina Silva ha avuto coraggio di una posizione non schematica e non banale. Il piano di Bolsa Familia con cui Lula ha garantito cibo in questi anni a 12 milioni di famiglie, ha un limite: si riduce a un meccanismo assistenzialista, che lascia le persone sempre in dipendenza del sussidio statale. Silva ha detto che Bolsa Familia deve evolvere, proponendo una prospettiva molto più innovativa sintetizzata in una formula molto efficace: lavorare per «un’inclusione produttiva». Al centro ci sta l’idea che l’educazione sia «il punto principale per dare continuità a uno sviluppo che coinvolga l’intera popolazione». Cioè il sussidio deve essere trasformato in uno stimolo a prendere iniziativa e a guadagnare l’indipendenza economica.
L’exploit di Marina Silva fa capire quanto bisogno ci sia, nella società prima ancora che nella politica, di questa capacità di smarcarsi dagli schemi. Di una discontinuità. Di un trasversalismo capace di aggregare e di scuotere le coscienze.


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