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Né associazioni né fondazioni, ora sono i trust a diventare onlus

Cosa prevede il recente atto di indirizzo pubblicato dall'Agenzia per il terzo settore

di Riccardo Bagnato

È tempo di grandi novità all’Agenzia per il terzo settore. Negli ultimi mesi l’ente ha pubblicato una serie di atti di indirizzo che promettono di rivoluzionare il settore. Dopo aver definito le partecipazioni di controllo detenute da onlus in enti societari aventi la qualifica di impresa sociale, l’ultimo atto di indirizzo dell’Agenzia, approvato dal Consiglio lo scorso 25 maggio, definisce la «configurabilità di un trust onlus». Una novità assoluta.
In inglese trust significa “affidamento” e si tratta di un ente fiduciario che gestisce un fondo o patrimonio per conto di qualcuno nell’interesse di uno o più beneficiari o per uno specifico scopo, spiega sommariamente l’avvocato Roberto Randazzo, esperto di trust e docente all’Università commerciale ?Luigi Bocconi’. L’ordinamento italiano in realtà però non lo prevede. Il che non vuole dire che non possa esistere. Ma per crearlo è necessario fare riferimento a una legislazione straniera (e, nel caso lo si voglia accreditare come onlus, preferibilmente a leggi non di tipo anglosassone, troppo complicate da “tradurre” nel nostro sistema). La novità di oggi, in realtà, sta nel fatto che «con questo atto di indirizzo è possibile richiedere da parte di un trust la qualifica di onlus«, precisa Randazzo. «Quello che si è fatto è fornire una serie di riferimenti interpretativi della legislazione italiana su cui l’Agenzia delle Entrate può basarsi per concedere o meno tale qualifica e i relativi benefici fiscali tipici di una onlus».
Detto così, però, il trust assomiglia per molti aspetti a una fondazione. «Sì, è vero, il trust è di per sé una realtà molto simile, ma con qualche importante differenza» dice Randazzo. E chiarisce: «Innanzitutto si tratta di una struttura in linea di principio più agile, tanto che non richiede il riconoscimento giuridico come invece è d’obbligo nel caso della fondazione. In altre parole non è obbligatorio, per creare un trust, avere un patrimonio minimo di 70-100mila euro come di solito prefetture o Regioni esigono per le fondazioni». E poi? «E poi il patrimonio di un trust una volta conferito al trustee (l’amministratore del fondo)», conclude Randazzo, «non ha più rapporti con quello del disponente (colui che decide di congelare in parte o in toto le proprie risorse creando il trust) e nemmeno con quello del beneficiario. Disponente e beneficiario potrebbero avere problemi finanziari, ma il fondo gestito dal trustee non subirebbe nessuna conseguenza».
In Italia la situazione è ancora agli albori, ma promette bene. A Genova, ad esempio, è stato costituto il Trust Rotary San Giorgio per il Microcredito onlus. Un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale a tutti gli effetti, con tanto di iscrizione al 5 per mille, nata con lo scopo di «consentire ai bisognosi», si legge sull’atto istitutivo del trust genovese, «di accedere al credito e di ricevere la somministrazione di prestazioni di carattere erogativo con modalità ispirate ai prinicipi del microcredito». Per il momento, infine, non è possibile considerare onlus i cosiddetti “Family office”, ovvero trust il cui scopo esclusivo è quello di gestire il patrimonio di una o più famiglie facoltose a beneficio dei propri componenti. «Ma il tema è ancora oggetto di dibattito», chiosa Randazzo. Che aggiunge: «La giurisprudenza italiana non prevede nemmeno le fondazioni di famiglia, ma la possibilità che questa forma specifica di trust, il “family office”, possa diventare onlus non è da escludere per il futuro».


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