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I figli dell’eroina con noi sono diventati grandi

di Sara De Carli

Compie vent’anni Arché, l’associazione fondata a Milano da padre Giuseppe Bettoni
che si trovò, quando l’Aids era un “castigo di Dio”,
ad accogliere e dare una speranza a bambini nati sieropositivi. Una missione
che continua oggi, accompagnando quei 3.400 bambini nell’età adulta e affrontando le nuove fragilità di una società che, dice Bettoni, «fa acqua da tutte le parti».Ride adesso, ricordando di quella mattina in cui si alzò prestissimo e comprò tutte le copie di Repubblica, in quel paesino di montagna dove erano in villeggiatura. Lo stilista che aveva sponsorizzato le loro vacanze, in una conferenza stampa, si era lasciato sfuggire il nome di quel paese, raccontando del suo sostegno ai bambini sieropositivi di Arché. «Ti lascio immaginare cosa sarebbe successo in paese se avessero scoperto chi eravamo…». Padre Giuseppe Bettoni ha 53 anni e vent’anni fa, nel 1991, fondò l’associazione Arché. Milano, quartiere Maggiolina, pochi passi dalla Stazione Centrale. L’eroina allora era visibile e palpabile. Qualcuno l’aveva definita il “castigo di Dio”: «Lo Spirito santo si era un attimo distratto», sorride padre Giuseppe. Comunità terapeutiche ce n’erano tante, ma ai figli dei tossici nessuno ancora aveva pensato. Fino a quando qualcuno parlò a padre Giuseppe di Cristiano. Da allora una buona parte dei 3.400 bambini sieropositivi nati in Italia – magari anche solo attraverso i volti dei volontari che li hanno fatti giocare in ospedale a Milano, a Roma o a Firenze, durante i tanti day hospital – hanno incrociato Arché.
Come è iniziato tutto questo?
Con l’esplosione a fine anni 80 del problema dell’eroina, qui nel quartiere. Io ero il prete dell’oratorio. Avevo gente che di notte entrava in oratorio, distruggeva tutto e mi faceva trovare le siringhe nei bagni. Da una parte dovevo tutelare i bambini, ma dall’altra mi chiedevo: si può fare qualcosa anche per questi ragazzi o dobbiamo per forza darli per persi? Ho iniziato a raccogliere attorno a me un gruppo di giovani universitari, con i genitori che mi dicevano «sei pazzo, me li rovini», e per un paio d’anni abbiamo accompagnato i giovani del quartiere con problemi di tossicodipendenza nella fase di disintossicazione, per indirizzarli alle comunità. Poi un giorno un’assistente sociale mi chiama e mi dice: «Avremmo il figlio di una coppia, lui è tossico, lei sieropositiva, potete fare qualcosa? Il bambino ha 3 anni, è in ospedale ed è malato di Hiv». È stato così, con Cristiano, che abbiamo iniziato a spostare il centro della nostra attività. Ed è iniziata l’avventura.
Dell’Hiv pediatrico allora non si occupava nessuno. Su cosa avete puntato?
Non c’era letteratura, né esperienze, né modelli assistenziali. Per un certo verso questo è stato un vantaggio, perché ci ha consentito di avviare un’esperienza assolutamente nuova. Per noi è stato subito chiaro che l’Hiv pediatrico è una malattia familiare, e non solo perché è trasmessa dalla mamma: bisognava agire su tutta la famiglia. Quelli che abbiamo incontrato erano spesso brandelli di famiglia, avevamo bambini usati dai genitori per spacciare bustine di eroina, spesso in carico ai nonni.
Chiusure? Pregiudizi?
Tantissimi. All’inizio degli anni 90 l’Aids era un grande sconosciuto, puoi immaginare che cosa significasse in una scuola, in un condominio, quando si veniva a sapere che un bambino era sieropositivo… Lavorare al benessere del bambino significa anche lavorare nei territori, perché ci siano comunità preparate ad accogliere i più fragili, a cominciare dalla scuola.
Oggi quei bambini sono giovani di vent’anni.
Siamo stati in prima linea per anni, poi le terapie hanno cominciano a controllare la malattia, quindi anche l’approccio del volontariato e dell’associazione è cambiato. Finalmente avevamo finito di fare il funerale di un bambino ogni venti giorni, e per noi si è liberato spazio mentale per progettare i percorsi di autonomia di questi ragazzi. La scuola, il gruppo, l’inserimento nel mondo lavorativo, gli affetti, la sessualità… Adesso i nostri ragazzi più grandi hanno 25 anni e le loro storie sono molto diverse tra loro. Alcuni hanno preso la loro strada, il fatto che ci siano anche alcune mamme è sintomatico di un percorso in qualche modo positivo, ma non sono pochi quelli che vivono una situazione molto difficile. Hanno 20 anni, sono orfani da dieci, tirati su da nonni, devono per forza trovarsi un lavoro e una casa. L’onda lunga di alcuni traumi infantili si sente ancora.
Quel che fate è emotivamente faticosissimo: stare accanto a un bambino e vederne tanti morire…
Abbiamo 220 volontari in tutta Italia e 60 solo a Milano. Molte sono mamme, molti i giovani universitari. Questi giovani hanno stabilito con i bambini rapporti straordinari, ricchissimi. E noi qui a dire: stai attento al burn out, a non bruciarti? però, se vai in mezzo alle fiamme in qualche modo ti scotti. Poi qui sai che c’è qualcuno che ti aiuta a lenire un po’ le ferite.
Oggi siete molto impegnati nella prevenzione del disagio giovanile e nel disagio psichico dei ragazzi. Qual è il vostro tratto identificativo nel vostro essere soggetto di welfare?
L’idea forte che ci caratterizza e che sta alla base del nostro modo di agire è che nel momento in cui ci prendiamo cura di chi nella città di oggi è più fragile, costruiamo una città migliore per tutti. Se i più fragili sono portati insieme e non messi a margine, sono coinvolti dentro una rete di relazioni, con una vita sufficientemente inclusiva e capaci di riconoscere loro il diritto di cittadinanza, è la cittadinanza che ne guadagna. Noi stiamo lavorando sul passare dall’essere volontario all’essere cittadino solidale. Ed è interessante che il volontariato si innesta qui con la solidarietà, cioè con qualcosa che – lo dice il termine stesso – è solido.
E quindi?
Dobbiamo, come diceva don Milani, avere il coraggio di dire ai giovani che l’obbedienza non è più una virtù e che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. Ciascuno è chiamato a dare il meglio di se stesso ma per il bene di tutti. Io penso che esista anche la globalizzazione del bene di tutti, nella consapevolezza che chi fa un gesto di solidarietà lo fa per una persona, per un volto preciso, ma in realtà lo fa per tutti e contribuisce a cambiare il mondo intero.


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