Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Politica & Istituzioni

Il fallimento dell’Onu in Darfur

In esclusiva, l’analisi di Claudio Gramizzi, ex esperto del Panel di esperti delle Nazioni Unite per il Darfur

di Joshua Massarenti

Bruxelles – Per la prima volta dalla pubblicazione di due rapporti Onu sul Darfur che hanno suscitato un forte imbarazzo presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fino a provocare un caso diplomatico senza precedenti all’interno del Palazzo di Vetro, un ex membro del Panel di esperti dell’Onu per il Darfur decide di rompere il silenzio proponendo un’analisi sull’impatto del regime di sanzioni adottato sette anni fa dalle Nazioni Unite in Darfur.

Claudio Gramizzi è noto per essere uno dei massimi esperti di traffico d’armi in Africa. Nel febbraio 2011 il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon lo aveva nominato membro di un Panel di esperti per il Darfur, ma dopo sette mese di attività, Gramizzi e due suoi colleghi decidono di rassegnare le loro dimissioni denunciando condizioni di lavoro insostenibili all’interno del Panel.

Nonostante le dimissioni, i tre ex esperti Onu scrivono un rapporto che consegnano al Comitato delle sanzioni delle Nazioni Unite il 24 gennaio. Nello stesso giorno l’Onu riceve un secondo rapporto, ufficiale, scritto dai due membri del Panel rimasti in carica e altri tre esperti chiamati a sostituire Claudio Gramizzi, Jerome Tubiana e Michael Lewis.

 

Embargo sul Darfur : un’esperienza deludente

di Claudio Gramizzi

Le difficoltà incontrate dal Panel d’esperti sul Sudan nel 2011 illustrano soprattutto l’inefficacia del regime di sanzioni imposto dal Consiglio di Sicurezza della Nazioni unite. Sette anni dopo l’adozione della risoluzione 1556 che gettava le basi dell’embargo sul territorio del Darfur, il bilancio risulta quanto meno negativo.

I rapporti dei diversi Gruppi d’esperti che si sono susseguiti dal 2005 fino ad oggi forniscono un ampio ventaglio di esempi concreti di trasferimenti di materiale bellico realizzati – tanto dal Governo di Khartoum come dalle forze di ribellione – in chiara violazione delle disposizioni contenute nell’embargo. Nonostante l’abbondanza di prove sottoposte al Consiglio di sicurezza, poche sono state le reazioni da parte della Comunità internazionale o degli Stati membri a cui incombe la responsabilità di impedire che simili operazioni siano realizzate.

In modo del tutto analogo, i rapporti presentati al Consiglio insistono con regolarità disarmante sul ricorso continuo, da parte dell’Esercito nazionale sudanese, ad operazioni militari aeree. Offensive, queste, che non solo contravvengono al divieto imposto dalla risoluzione 1591, ma che colpiscono indiscriminatamente popolazioni civili, contribuendo a mantenere vivo il flusso di sfollati interni e profughi, nonché a precludere l’accesso agli aiuti umanitari per intere regioni.

Questi elementi, uniti all’evoluzione recente del conflitto, suggeriscono senza indugi fino a che punto l’embargo abbia generato pochi impatti concreti sull’evoluzione militare del conflitto e che punto l’incidenza delle sanzioni sulla capacità delle forze belligeranti ad attivare canali di approvvigionamento militare sia stata marginale. L’utilizzo, in Darfur, nel corso del primo trimestre del 2011 di munizioni fabbricate nel 2010 resta, forse, l’illustrazione più eloquente del fallimento del regime di sanzioni come strumento legale di risoluzione del conflitto.

L’analisi delle ripercussioni politiche dell’embargo – altro aspetto da soppesare attentamente, considerando che le sanzioni vogliono essere uno strumento diplomatico, seppur estremo, progettato per contribuire alla creazione di condizioni politiche più favorevoli alla risoluzione pacifica del conflitto ed all’adozione di misure mirate dovendo indurre un cambiamento di comportamento da parte di coloro che sono considerati come attori-chiave del conflitto – porta a conclusioni altrettanto deludenti.

L’atteggiamento del regime di Khartoum non sembra aver subito nessuna influenza concreta dal 2005 a questa parte ed i venti di guerra che soffiano abbondantemente sulla zone di frontiera con il nuovo vicino del Sud Sudan lasciano planare pochi dubbi sulla disponibilità del regime sudanese a cambiare la sua linea politica nella gestione delle tensioni e delle divergenze interne.

Un’ulteriore conferma è certamente fornita dal fatto che tre dei quattro individui sanzionati dal Consiglio di Sicurezza nel 2006 dichiarino aver violato le sanzioni a più riprese e non vedere le sanzioni come un motivo per modificare le proprie posizioni politiche.

La persistenza del conflitto in Darfur, l’emergenza di una nuova ribellione negli Stati del Sud Kordofan e del Blue Nile in giugno 2011 ed il rapido deterioramento delle relazioni tra Khartoum e Juba, ormai regolate da un equilibrio precario che potrebbe ribaltarsi in un conflitto aperto e generalizzato, rafforzano l’urgenza di un cambiamento d’approccio della comunità internazionale nei confronti delle diverse questioni inerenti al Sudan e potrebbero forse creare le condizioni politiche necessarie ad una rivisitazione del regime di sanzioni attuale, con un’eventuale estensione dell’embargo sulle armi al resto del territorio nazionale sudanese ed al vicino sud-sudanese.

Opzione forse destinata a generare un impatto più concreto e positivo di quello osservato fin qui in Darfur, a condizione, però, che le lezioni apprese negli ultimi sette anni siano messe in pratica.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA