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Elettroshock, gli psichiatri: liberiamolo dal pregiudizio

Petizione al ministero della Salute per reintrodurne almeno uno per ogni milione di abitanti

di Redazione

Si chiama Tec (terapia elettroconvulsivante), si legge elettroshock. Un nome che in Italia fa piu’ paura che altrove. Tanto che nel nostro Paese i centri in grado di offrirla ai pazienti sono pochi, pochissimi per gli psichiatri che, infatti, hanno pronta una petizione da inviare al ministero della Salute per chiedere piu’ centri e una maggiore autonomia decisionale nel prescrivere la Tec quando necessaria. “Cari Colleghi, in occasione del prossimo congresso della Sopsi (la Societa’ italiana di psicopatologia) dal 19 al 23 febbraio – rivela una lettera inviata agli psichiatri italiani dall’Associazione italiana per la terapia elettroconvulsivante (Aitec) – abbiamo organizzato un incontro dei soci Aitec per discutere una petizione che vorremmo sottoporre al ministero della Salute con cui vorremmo chiedere l’apertura di almeno un servizio di Tec per ogni milione di abitante, in tutte le Regioni d’Italia”.

In Italia la legge Basaglia (la 180 del 1978) impose la chiusura dei manicomi e regolamento’ il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. La norma, che suggello’ un movimento culturale “e’ un unicum nel mondo” spiega l’ideatore della petizione, il neuropsichiatra e presidente dell’Aitec Athanasios Koukopoulos. “E’ il frutto di un movimento anti-psichiatria che a partire dagli anni ’60 ha provato a sottrarre i disturbi psichici alla medicina. In piu’ – afferma il medico all’ADNKRONOS SALUTE – si e’ radicato in Italia un conformismo ideologico che ha visto nell’elettroshock un abuso di potere del medico sul paziente. Un ragionamento sbagliato perche’ – dice – e’ come se si contrastasse l’uso del bisturi perche’ e’ stato uno strumento usato anche da medici come Josef Mengele, il medico delle SS”. Meno drastico e’ invece un altro firmatario della petizione, Paolo Girardi, docente di Psichiatra alla II facolta’ di medicina e chirurgia dell’universita’ La Sapienza di Roma. “Lo scarso ricorso all’elettroshock che si fa in Italia affonda le radici in motivi reali. In passato infatti – denuncia – se ne e’ fatto un uso selvaggio e sbagliato. Dunque oggi viviamo ancora un clima di reazione a un cattivo utilizzo di questa terapia”.

L’elettroshock “non e’ una tortura. Prova ne e’ il fatto che ancora oggi si pratica, anche in Italia”, ricorda Koukopoulos. Lo psichiatra rivela che “piu’ o meno il 20% degli italiani, nel corso della loro vita, dovra’ affrontare almeno un episodio di depressione lieve. Ma il 3-4% della popolazione soffrira’ di una forma grave di depressione. Tanto grave che in genere un quinto di queste persone porta a compimento un tentativo di suicidio. E – prosegue lo specialista – se per il 50-60% di questi depressi gravi prima o poi si riesce a trovare una terapia farmacologica efficace, per il restante 40% non c’e’ altra terapia che non l’elettroshock”. Non si tratterebbe dunque di applicare gli elettrodi alla testa di tutti i depressi, chiarisce Koukopoulos. “Oltre a questi casi, poi – interviene Girardi – l’elettroshock e’ l’unica terapia possibile per esempio per le depressioni gravi durante la gravidanza. O nel caso di persone anziane che non possono essere imbottite di farmaci. L’importante – spiega – e’ tornare a parlarne in chiave scientifica e non con pregiudizi subculturali anche qui in Italia”. Per l’Aitec il problema logistico pero’ non e’ di secondo ordine: “pochissimi i centri in Italia, e non tutti pubblici. E le Asl – continua Koukopoulos – ne ostacolano la diffusione perche’ si tratta di uno strumento terapeutico che non fa guadagnare nessuno. Neppure le Case di cura convenzionate a cui – dice – non viene rimborsato come Drg ad hoc”. Meno drastico, ancora una volta, e’ Girardi. “Non c’e’ alcuna strategia occulta per boicottare l’elettroshock a favore di altre terapie come quelle farmacologiche – assicura – perche’ in altri Paesi, dove il peso delle aziende farmaceutiche e’ anche piu’ forte che in Italia, la Tec e’ molto piu’ praticata”. Dunque, per Girardi si tratta “di una delle tante opzioni terapeutiche, da usare quando necessario e comunque non in alternativa ai farmaci ma con piu’ attenzione”.

All’Aitec l’occasione di avere circa 3.000 psichiatri riuniti insieme deve essere parsa molto ghiotta. Da qui l’idea della petizione, “che abbiamo avuto – riprende Koukopoulos – prima che cadesse il Governo. Comunque una volta raccolte le firme – assicura – la lettera sara’ presentata all’attuale inquilino di Lungotevere Ripa, come pure al successivo”. Una questione sembra preoccupare soprattutto Girardi. “L’elettroshock deve essere praticato solo nelle strutture pubbliche dove ci sono comitati etici strutturati, in grado di tutelare il paziente. Ci vuole infatti – sottolinea – un consenso informato vero, non solo per i malati, ma anche per i loro familiari. L’importante e’ che da parte di noi medici non si neghi ai malati anche questa possibilita’, evitando il pregiudizio sulle terapie”. L’elettroshock “sostanzialmente induce una crisi epilettica, ma – prosegue Koukopoulos – non provoca danni. Le vecchie tecniche potevano causare vuoti di memoria, ma questo inconveniente – assicura – oggi e’ scongiurato”. D’accordo Girardi: “La Tec fa paura anche perche’, nell’immaginario delle persone, si fa riferimento a tecniche e macchine in uso decine di anni fa. Ma non e’ piu’ cosi’. Oggi -precisa- non lo esegue lo psichiatra ma un’equipe guidata da un anestesista, dunque non da svegli”. Lo psichiatra de La Sapienza e’ convinto che la petizione “incontrera’ resistenze, e dara’ vita all’ennesima caccia alle streghe. Per mutare il clima e ricondurlo su ‘binari’ piu’ scientifici – suggerisce – bisognerebbe che venissero fatte campagne informative per i cittadini. Ma anche nei confronti della classe medica. Io – racconta – ho quotidianamente a che fare con medici specializzandi in psichiatria che non sanno piu’ cos’e’ l’elettroshock. Anche sul fronte della formazione – conclude – bisognerebbe lavorare”.


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