Sanità & Ricerca

Scola ci insegna ad essere prima uomini e poi preti

Parla Don Tullio Proserpio, dal 2003 cappellano dell'Istituto dei Tumori, che ieri ha fatto da guida all'arcivescovo in visita

di Lorenzo Alvaro

Ieri l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, è stato in visita all’Isituto dei Tumori di Milano. Ha incontrato il personale medico, i pazienti e i loro parenti, intrattenendosi in lunghi dialoghi, soprattutto personali e colloquiali, con chi vive quotidianamente la struttura.
A fargli da guida, don Tullio Proserpio, 47 anni e da  da nove cappellano dell’ospedale che, raggiunto da Vita.it, racconta l’incontro con il vescovo.

Cosa ha significato per voi, medici e pazienti, questo incontro?
Quello che ho anche detto  nell'indirizzo di saluto al cardinale è che il fatto che sia venuto in visita dice l'ulteriore prossimità della Chiesa con questo mondo. È stato il rinnovare della disponibilità della Chiesa ad offrire il proprio contenuto, una persona, Gesù.. 

In cosa l'ha stupita il cardinale?
È stato il linguaggio di Scola. Una grande capacità di mettersi in ascolto e usare un linguaggio umano. Senza perdere la propria identità. Oserei dire che ha usato il linguaggio della realtà

Un esempio di questa umanità?
Ha parlato con chi ha perso i propri congiunti e lia rincuorati. Ha detto di affidarsi alla Madonna, di farsi coraggio. Ma poi ha aggiunto, molto toccato, “mi rendo conto che quello che vi sto dicendo sono solo parole”. Questo è livello umano. Perchè non significa negare la bontà delle parole dette, ma avere la consapevolezza che anche parole di verità, di fronte, ad esempio, al dolore di genitori che hanno perso un figlio, non bastano. Serve un abbraccio. Serve un gesto umano, le parole o stanno lì dentro, nel'abbraccio o sono vane..

C’è una frase detta che a suo avviso è destinata a cambiare qualcosa nell'Istituto?
Torno sullo stesso punto. Scola ha anche detto qualche tempo fa, e io l'ho ricordato nel messaggio d'accoglienza, che di fronte al dolore “è importante sapersi svestire dell'abito clericale”. Cosa significa? Saper mettersi in rapporto e aprire la propria umanità. A questo aggiungerei un'altro tema: il cardinale ha sottolineato che “nessuno si dà la vita da solo, per questo parliamo di sacralità della vita». Questa secondo me è una prospettiva che raggiunge tutti e elimina le divergenze ideologiche su un tema molto caldo. Un modo per poter discutere con tutti senza barriere.

A proposito do attualità, circa l’accanimento terapeutico cosa insegna Scola, anche alla luce della recente scomparsa di Martini?
Ha sottolineato semplicemente che la Chiesa è contro l’accanimento terapeutico. Che non vuol dire che non bisogni impegnarsi fino all'ultimo alito. Ma è un tema spinosissimo, è molto difficile stabilire infatti chiaramente in cosa consista l'accanimento. Cambia caso per caso, paziente per paziente. Ecco perchè non si può fare una regola per tutti, perciò ha ricondotto il tema nell'ambito della relazione paziente, familiari e medici.

C’è continuità pastorale tra Martini e Scola passando per Tettamanzi?
Alla luce dell’intervento di Scola proprio sull'accanimento terapeutico, si. Ognuno con la propria specificità naturalmente.

Che cosa significa essere cappellano di un’Istituto dedicato alla cura del cancro, il male più tragico dei nostri tempi?
Sono qui come prete e non come assistente sociale. Questo è il mio compito. Sono chiamato ad aiutare le persone in questa fatica. Un aiuto in termini spirituali non religiosi. Quello che mi rende contento del mio lavoro è il livello umano che è possibile qui. La domada genuina di umanità che nasce nella fatica della malattia. La domanda che mi pongo ogni giorno: cosa posso fare io come prete per aiutare queste persone e i loro parenti?

Lei ha fatto uno studio sulla speranza durante la malattia. Che cosa ha rilevato?  
È uno studio in cui ho coinvolto diversi medici dell’isituto. È stato gestito con un questionario autosomministrato sulla speranza. I risultati preliminari mettono in evidenza il dato relazionale della speranza. Non è una novità: perchè ci sia speranza è necessario che ci sia relazione. Più un malato è accompagnato umanamento, più cresce la speranza. Nulla di sconvolgente, ma in questo modo è diventato un dato scientifico e medico. Da cui si può partire per ulteriori ricerche e riflessioni.


(Scaricabile in allegato una pubblicazione sulla rivista medica Tumori,  riguardo la ricerca)

 


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