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L’era della disintermediazione

Economia, cultura e politica travolte dal Web. Da Groupon agli e-book fino al M5S, tutte le facce delle stesse medaglia

di Redazione

Groupon, gli ebook e il Movimento 5 Stelle. Che cosa hanno in comune? Apparentemente nulla, eppure tutti e tre i fenomeni nascono e si avvalgono, seppure in forme e con modalità diverse, della rete, scavalcando i tradizionali intermediari che  presidiavano le filiere dell’economia, della cultura e della politica. In tutti e tre i casi si tratta di esperienze low cost, e in una certa misura iconoclaste, nel senso che spazzano via sacralità e simboli, laicizzando così l’economia, la politica e la cultura. La disintermediazione globale generata dal Web ha profondamente mutato, negli ultimi decenni, rapporti, ruoli e regole che normavano le tradizionali  società di massa.

Al paradigma verticale è succeduto quello orizzontale, laddove non esiste più solo un produttore-emittente-decisore, da una parte, ed una massa indistinta, dall’altra, bensì co-esistono una pluralità di attori sociali che interagiscono reticolarmente. Si tratta di una rottura  paradigmatica che mette in forte discussione  modelli consolidati di produzione e consumo, di trasmissione del sapere e di costruzione dell’opinione pubblica. Ma vediamo, dove e quando nasce e che cosa significa disintermediazione.

Come ha sottolineato Gino Roncaglia,  il termine “disintermediazione” è collegato a un libro per certi versi profetico: “The Next Economy”, scritto nel 1983 da Paul Hawken, un autore molto impegnato sul fronte del rapporto fra commercio e ambiente. In prima istanza, l’idea è che le nuove tecnologie consentano agli utenti di svolgere autonomamente tutta una serie di attività che di solito richiedevano figure di mediazione, legate in particolare alla distribuzione e alla vendita di beni e servizi. Un fenomeno divenuto evidente con lo sviluppo di internet, che porta al moltiplicarsi delle situazioni di disintermediazione: dall’acquisto di beni e servizi alla diffusione del sapere per giungere, infine, alla rappresentanza politica.  

In tale contesto gli intermediari (figure di mediazione)  sono destinati a scomparire. Ma chi sono gli intermediari? Sono le aziende, gli editori, i partiti che non solo ricavano  un guadagno dal proprio lavoro, ma spesso riescono a conquistarsi un ruolo di “guardiano” (gatekeeper) di certi canali. Nel momento in cui “presidia” un certo canale, cioè, l’intermediario seleziona contenuti e prodotti, facendoli transitare da un sistema ad un altro: una istanza sociale che diventa proposta di legge, ad esempio, costituisce a tutti gli effetti una traduzione; così come un accadimento che diventa “notizia.

Ma procediamo per ordine, ricostruendo sinteticamente la recente storia della disintermediazione. Partiamo dall’economia, dove si afferma per prima questa nuova pratica: la relazione fra cliente e azienda, grazie al Web diviene diretta scavalcando la costosa mediazione di figure intermedie. Ciò consente anche a piccole realtà produttive di raggiungere direttamente, attraverso la rete, i consumatori finali. A cascata, questa nuova modalità si afferma anche nell’industria culturale.

Il primo settore ad essere investito  dalla disintermediazione è il comparto musicale che viene travolto dalla pirateria e dall’ascolto online, con pesanti conseguenze sugli utili delle compagnie discografiche e drammatici tagli dell’occupazione. A seguire è il mondo dell’informazione a subire gli esisti più devastanti, con un calo consistente delle tirature e delle vendite, sia a livello di periodici che di quotidiani. Ultimo settore investito dalla disintermediazione è quello dell’editoria libraria che, a seguito dell’irrompere dell’ebook, sta vivendo, al di là della contrazione causata dalla crisi, una fase di profonda ristrutturazione, segnata dall’emergere del fenomeno selfpublishing che sta mettendo in discussione la funzione culturale stessa dell’editore.

Ma c’è ancora un’ altra sfera pesantemente investita dalla disintermediazione: la politica. Facendo seguito alla già incipiente crisi delle forme tradizionali di rappresentanza, l’irruzione sulla scena politica del web e dei social network ha ulteriormente delegittimato i partiti tradizionali, mettendone radicalmente in discussione sia il ruolo che l’identità, mentre, nel frattempo, sono sorti nuovi attori della rappresentanza, legittimati proprio dalla rete. L’ultimo in ordine di tempo, dopo i Piraten tedeschi e il Movimento 5 Stelle italiano, è il Partido del Futuro spagnolo. Una nuova formazione senza leader che, ispirandosi al modello di democrazia partecipativa di Porto Alegre, propone quattro punti fondamentali: referendum, voto permanente, wikigoverno e trasparenza.

Ciò che accomuna questi movimenti è l’uso massiccio della rete, in alternativa ai tradizionali media verticali come la stampa e le televisioni. Tali nuove forme di partecipazione, gratificate come in Italia dallo straordinario successo del M5S, debbono coesistere e muoversi all’interno delle istituzioni rappresentative parlamentari. Questo per ora è il loro limite, poiché ancor oggi non s’intravede quale potrà essere il futuro della digital democracy,  con regole ancora tutte da scrivere e protocolli da validare e legittimare. Ma, nonostante i dubbi e le cautele espresse da alcuni autori come Stefano Rodotà (Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza,Roma-Bari 2004), anche il futuro  dei partiti  sembra segnato così come il destino dei politici tradizionali.


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