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Si dona più col cuore o con la testa?

C'è chi dona d'impulso, commosso dalle sofferenze dei deboli o dalle tragedie trasmesse in tv, e chi invece analizza bilanci e numeri prima di destinare anche pochi spiccioli. Qual è il donatore migliore? Chi rischia di meno o chi si butta? Ma soprattutto: esiste una via di mezzo?

di Gabriella Meroni

Si dona più col cuore o col cervello? Quando apriamo il portafoglio, privilegiamo le cause che ci colpiscono maggiormente nei sentimenti, o ciascuno di noi sceglie il destinatario della propria solidarietà andando a vedere chi è, cosa fa, come lo fa e se usa bene il denaro?

La questione non è di poco conto, tanto che il New York Times vi ha dedicato un ampio servizio in cui l'autore, il giornalista economico Paul Sullivan, parla della propria esperienza piuttosto emblematica: padrone orgoglioso di un cane guida per ciechi ormai ritiratosi per età avanzata, ha conosciuto attraverso di lui il mondo della cecità e ha deciso di diventare donatore di due associazioni che si occupano di istruire i cani guida e sostengono i ciechi nella vita di tutti i giorni.

Strano, per un giornalista-economista che ogni giorno dalle colonne del NYT (e prima del Financial Times) dà consigli su come investire saggiamente il proprio denaro soppesando attentamente rischi e vantaggi e lasciandosi guidare esclusivamente dalla razionalità. Eppure, a volte il raziocinio c'entra poco con la decisione di donare: "Il dibattito tra testa e cuore in questo campo è eterno", testimonia Thomas E. K. Cerruti, ex consulente personale del miliardario e filantropo Sam Skaggs (morto a marzo a 89 anni). "Ma credo che la maggior parte dei grandi donatori faccia del bene per motivi egoistici: avere una targa su un palazzo, essere ricordato. Le altre motivazioni sono difficili da indagare". Cinico o realista? "Donare solo col cuore è rischioso", è l'opinione del professor Gene Tempel, fondatore dell'Indiana University’s Lilly Family School of Philanthropy. "Io consiglio sempre di informarsi bene sull'organizzazione che si decide di sostenere. Di andarci proprio fisicamente, a visitare la sede e a fare domande".

Ma c'è anche chi non si è mai fatto troppe domande, come Ani Hurwitz, ex funzionaria del New York Community Trust in pensione da fine giugno, che confessa candidamente di essere sempre stata una "donatrice emozionale" sull'esempio del padre, che piangeva davanti alla televisione quando il tg parlava di disastri o carestie e subito donava a qualunque associazione fosse attiva per tamponare quella emergenza. "Ho lavorato una vita nel non profit e so cosa significa misurare l'efficenza e l'efficacia di una organizzazione", dice oggi Ani, "ma sono sempre stata guidata più dalle storie che dai numeri". L'ultima donazione lo conferma: la signora Hurwitz ha acquistato un telescopio da 250 dollari donandolo a una scuola del Bronx "per permettere a quei ragazzi di guardare le stelle". E conclude: "Chi di noi è veramente in grado di valutare se la nostra donazione è davvero servita al 100%? Nessuno".

C'è anche chi si sforza di mantenere un atteggiamento equilibrato, tenendosi a metà tra cuore e cervello, come Eric Friedman, un operatore finanziario di Chicago che ha deciso di destinare il 10% dei propri guadagni a un ordine religioso che si prende cura di bambini disagiati: "Non sono cattolico, ma ho valutato che quelle suore sarebbero state in grado di prendersi adeguatamente cura dei bambini", testimonia Friedman, che però poi ha sospeso le donazioni quando ha iniziato a ricevere troppe lettere di sollecito, perché "ho capito che gran parte dei miei soldi andavano ai fundraiser". "Chi dona in base alle emozioni è come chi spende una follia per una cena", riassume Friedman. "Non è saggio, ma è comunque un piacere".

Le sfumature sono tante, insomma, e c'è un po' di sentimento e un po' di razionalità in ogni decisione di donare: il donatore deve sentire il calore di una ricompensa emozionale dopo la donazione, ma deve anche sapere il più esattamente possibile di non aver buttato via il proprio denaro. "Noi facciamo scegliere al cliente una causa a cui si sente emotivamente vicino, poi lo aiutiamo a scegliere l'associazione di quel settore che sappiamo essere affidabile", è la strategia di Debra Treyz, consulente del Philanthropy center di J. P. Morgan Private Bank.

Quanto all'autore dell'articolo, dopo la morte del proprio cane ha preso una decisione "emozionale" da cui spera un ritorno "razionale": non riuscendo ad acquistare un altro quattrozampe, adotterà un cucciolo a distanza, sperando che l'associazione che sostiene ne faccia un ottimo cane guida per ciechi.


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