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Disabili e lavoro: Italia bocciata

Per la Corte di giustizia dell'Unione europea le misure adottate dall'Italia non offrono sufficienti garanzie. Barbieri (Fish): «Da anni sosteniamo la carenza di politiche inclusive e di servizi efficaci».

di Antonietta Nembri

Non basta adottare delle norme dedicate all’integrazione sociale e  ai diritti delle persone disabili e in particolare al diritto al lavoro. Occorre che queste normative prevedano garanzie e agevolazioni reali e cogenti. Ed è proprio sull’efficacia delle normative, sulla loro ricaduta pratica e reale che l’Italia viene ancora una volta richiamata.

Va in questa direzione la bocciatura che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha inflitto al nostro Paese dal momento che l’insieme delle norme italiane in materia in materia di occupazione delle persone con disabilità non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro.
L’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio.

Varata nel novembre del 2000, la direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di impegno impone, in particolare al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti comportino un onere finanziario sproporzionato. Tale onere non è sproporzionato quando è compensato in modo sufficiente da misure statali a favore dei disabili.

Nella sentenza ordierna (il testo integrale è online al sito  www.curia.europa.eu) quindi la Corte stabilisce che gli Stati membri devono stabilire un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci e pratici (sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza tuttavia imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. Un obbligo che per la corte riguarda tutti i datori di lavoro. Non basta da parte degli Stati prevedere misure di incentivo e sostegno, ma compito degli Stati è imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete.
La conseguenza è che l’Italia con le sue normative (L. 104/1992 – L. 381/1991 – L. 68/1999) non prevede alcuna imposizione, risultato: le misure italiane non offrono garanzie sufficienti e il nostro Paese è venuto meno ai propri obblighi.

Basta guardare i numeri: in Italia solo il 16% (circa 300mila individui) delle persone con disabilità fra i 15 e i 74 anni lavora, contro il 49,9% del totale della popolazione. E solo l’11% delle persone con limitazioni funzionali che lavorano ha trovato occupazione attraverso un Centro pubblico per l’impiego. Come ricorda la Fish, la federazione italiana per il superamento dell’handicap in una nota a commento della sentenza.
Da parte sua poi, Pietro Barbieri, presidente Fish commenta: «La Fish non può che accogliere con favore una sentenza di portata storica: da anni sosteniamo la carenza di politiche inclusive e di servizi efficaci. I dati drammatici sull’occupazione delle persone con disabilità già erano disarmanti e brutali».
E con un richiamo all’attualità ricorda: «In questo momento si sta discutendo di misure per il rilancio dell’occupazione: l’attenzione alle persone con disabilità deve essere prioritaria e mutare radicalmente le politiche e i servizi per l’inclusione lavorativa. Per uscire dalla marginalità, per essere protagonisti della propria esistenza. Ora attendiamo un segnale dal Governo, qualche interrogazione parlamentare, ma soprattutto misure concrete».
 


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