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Cooperazione & Relazioni internazionali

L’adozione non fa più audience

Dopo oltre due mesi di attesa è ufficiale: le adozioni internazionali sono nelle mani del ministro Cécile Kyenge. Proprio questo mese Vita esce con uno speciale di 8 pagine dedicato alle adozioni, fra crisi e nuove prospettive. Eccone un assaggio.

di Sara De Carli

«Abbiamo dovuto spiegare noi a nostro figlio che lui non era in Italia per studiare. Che non sarebbe tornato presto in Etiopia da sua mamma. Che era nostro figlio, per sempre». A Silvia, chiamiamola così, viene ancora da piangere nel raccontare degli occhi vuoti di suo figlio quando lui capì davvero quello che era successo e cosa voleva dire “adozione”: «c’è una dichiarazione di abbandono, non sto dicendo che ci sia qualcosa di irregolare, però di fatto qualche dubbio c’è. Mio figlio ricorda benissimo il pulmino che è passato a prenderlo una mattina, insieme ad altri 4 o 5 bambini del suo villaggio: possibile che 4 o 5 famiglie, nello stesso villaggio, decidano di abbandonare i figli nello stesso momento? Forse una “spinta” c’è».

Silvia ha adottato in Etiopia: storie simili alla sua sono già arrivate alle pagine dei giornali e dei libri, basti pensare al recentissimo "The Child Catchers" di Kathryn Joyce. La sua più che una denuncia è un appello per una maggiore trasparenza: «il referente locale ha chiesto a mio figlio di mentire sulla sua età, per essere adottato più facilmente, ma questo significa caricare di ulteriori pesi i bambini, che hanno già storie difficili. Sulla carta lui aveva 5 anni e mezzo quando lo abbiamo adottato, in realtà ne aveva 7 o 8». Quando suo figlio è arrivato in Italia sapeva leggere e conosceva qualche parola di inglese: qui da noi invece, guardando l’età anagrafica, avrebbe dovuto essere inserito all’asilo. «In quarta elementare – racconta Silvia –  il problema è esploso, lo abbiamo ritirato da scuola, abbiamo fatto un accertamento di età e cambiato i documenti, lui ha sostenuto un esame ed è passato in prima media. Da allora è più tranquillo. Ma io mi chiedo che senso abbia mentire all’inizio per poi costringere bambini e famiglie a fare percorsi del genere, a sofferenze che si potrebbero evitare».

In Etiopia sono autorizzati otto enti italiani, che negli anni hanno adottato più di 2.600 bambini etiopi. Tra questi otto c’è il Centro Aiuti per l’Etiopia, specializzato proprio su questo paese. Roberto Rabattoni, il suo presidente, oggi ha 70 anni e da trenta passa molta della sua vita proprio in Etiopia. La prima volta ci andò per adottare sua figlia, e non ha più smesso. Nel 1983 fonda l’Associazione Centro Aiuti per l’Etiopia, per aiutare i poveri di quel paese e nel 2010 è stato insignito dell’Award of Excellence, un’onorificenza mai assegnata a nessuna altra associazione in Etiopia. Ecco il suo punto di vista.

 

Voi lavorate in un paese non semplice e rispetto a cui la cronaca continua a raccontare di situazioni incresciose e di bambini "comprati". Quali garanzie danno il sistema e il Paese rispetto alla reale adottabilità dei bambini e alla correttezza delle procedure?
È vero quello che lei dice. Purtroppo i bambini rubati ci sono: il Cae sta finanziando delle case del Governo nelle quali sono mantenuti i ragazzi e bambini rubati fintanto che non vengono ritrovate le loro famiglie. Noi stessi abbiamo assistito per mesi al Centro di accoglienza Giovanni Paolo II di Areka bambini che ci ha affidato il Governo perché alcuni enti americani avevano condotto iter “spregiudicati”: ora molti di quei bambini sono tornati alle loro famiglie. Questo conferma che non possiamo appoggiarci a mediatori e a procuratori che non siano più che “certificati” perché i bambini vengono spesso comprati e rubati. Noi crediamo solo al nostro controllo sul posto, ciò non avviene per altri. Da tanto tempo controlliamo direttamente che il bambino non abbia parenti per non avere sorprese e mi si creda, non è assolutamente semplice come può pensare un occidentale! In Etiopia l’origine di un figlio è ancora un problema perché l’anagrafe esiste ma costa e le famiglie non hanno i soldi per mangiare immaginatevi se li hanno per registrare un figlio!

Sono stati fatti passi in avanti?
La legge attuale è più giusta a garanzia del bambino e delle famiglia adottive: è stato perfezionato lo stato di abbandono, facendo accertamenti più severi sui bambini affinché possano essere resi adottabili solo bambini senza parenti. Come detto lo facciamo anche noi prima del Governo, cioè si fanno doppi accertamenti perché la terra etiope ormai la conosciamo bene ed è un dovere controllare il lavoro dei Governi.

Su cosa bisognerebbe investire?
Noi crediamo che tutti gli attori debbano investire maggiormente in centri per i bambini abbandonati,  gravemente handicappati o malati  per i quali è difficile trovare una famiglia. Per questo desideriamo far conoscere la nostra esperienza del Centro di accoglienza Giovanni Paolo II di Areka, nel Wollaita. Areka è un monumento vivente all’umanità e alla comprensione del valore della vita, qualunque essa sia. Stiamo anche favorendo piccole cooperative di lavoro per dare un futuro migliore a questi ragazzi perché dopo il Centro di accoglienza ci sarebbe la strada e poi…. probabilmente la morte!

Com’è il trend delle adozioni per voi in questi primi mesi del 2013?
Nei primi sei mesi 2013 il Cae ha più che raddoppiato il numero delle adozioni rispetto l’anno precedente. Le cause del calo storico credo che dipendano da una sfiducia verso gli intermediari locali da parte degli enti o una rinnovata attenzione perché le leggi in Etiopia sono cambiate e vengono fatti, giustamente, più controlli per verificare la provenienza dei bimbi. Il Cae controlla anche prima che il governo faccia le verifiche.

Qual è il suo giudizio sul sistema delle adozioni oggi? Mi indica tre principali criticità?
Primo, ci sono gravi e sostanziali incomprensioni con le istituzioni deputate all’adozione, si fatica a snellire le procedure rendendo il percorso per le famiglie un tormento irto di ostacoli. Secondo, non c’è collaborazione tra gli enti: ognuno va per la sua strada, perché ognuno vuole apparire più bravo e non dipendere dagli altri. C’è troppa rivalità. Terzo, si è diffusa una burocrazia del “professionista” che va a discapito del “volontariato vero”. Ma la competenza non è questione di lauree.

Come impatta la crisi delle adozioni su un ente piccolo? Quali strategie per il futuro?
Le nostre strategie per il futuro sono sempre quelle, ovvero cercheremo di aumentare ancor di più la cooperazione: i sad (sostegni a distanza), i progetti mirati, gli ospedali, le scuole e gli aiuti generici per sostenere principalmente i bambini. Noi riusciamo a far giungere tanti bambini in Italia ma vogliamo favorire anche adozioni nazionali in Etiopia soddisfando la domanda di coppie etiopi (in realtà pochissimi casi, l’1 per mille, ma questo ci gratifica).

Una delle strade che si prospettano è la riduzione del numero di enti, in favore di meno enti di dimensioni maggiori, presenti in molti paesi, in grado di fare economie di scala. Che ne pensa?
Assolutamente no. L’abbiamo già detto con un articolato documento inviato alla Cai a gennaio 2013. Secondo me le famiglie si avvicinano agli enti meno grandi perché sono più seguiti e, generalmente, riescono  in tempi  minori a concludere l’iter adottivo. In realtà penso che gli Enti grandi siano in difficoltà e vogliono “fare sparire” quelli medi-piccoli per giungere ad un “monopolio”. Noi crediamo invece che il pluralismo degli enti, anche il loro aumento, faccia crescere le opportunità per i bambini. A questo però deve corrispondere una vera cooperazione, non quella di facciata che spesso si vede. Più enti ci sono, più bambini ci sono, più si accorciano i tempi, più il prezzo dell’adozione diminuisce. Un’altra strada che mi sembra da valutare con attenzione potrebbe invece essere l’affido internazionale, con la possibilità poi di adottare a costo zero, tramite adozione nazionale, i bambini arrivati dall’estero.

 


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