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Pietro Barcellona, le sue parole e il nostro ricordo

All’età di 77 anni si è spento il professore Pietro Barcellona, un grandissimo intellettuale, un amico e nostro editorialista. Lo ricordiamo qui ripubblicando il suo commento sull'elezione di Papa Francesco. Protagonista ieri della veglia di preghiera e digiuno per invocare la pace.

di Redazione

All’età di 77 anni si è spento il professore Pietro Barcellona, docente di diritto privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, componente, dal 1976 al 1979, del Consiglio superiore della magistratura e deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983.

Pietro Barcellona è stato anche un grande amico, un editorialista di VITA, le sue riflessioni ci hanno aiutato a capire dove stiamo andando e cosa cercare

Tra i suoi ultimi libri, imperdibili, La speranza contro la paura,  Elogio del discorso inutile,  Il furto dell’anima, La narrazione post-umana, Sapere affettivo, Incontro con Gesù.

Nel novembre 2010 un editoriale al primo numero del nuovo Vita aveva scritto:  “Come affermava Saint-Exupéry, occorre: «che si sbrogli la logica per dar conto alla vita!». La prima rivoluzione culturale di cui questo Paese ha bisogno è la verità del confronto, l’apertura dello spazio pubblico ai “dilettanti della vita” che praticano giornalmente la fatica di lavorare, insegnare, educare, amare e soffrire. Facciamo davvero posto alla “gente” di cui tutti parlano a sproposito: facciamo parlare i giovani, gli operai, le casalinghe, gli anziani, i malati. Smettiamola con il nichilismo della fiction e con la semplificazione opportunistica degli schieramenti politici. Nel mondo comune le parole sono ancora pesanti, perchè chi le pronuncia ne vive i significati, incarnandoli. Smettiamola di parlare di onestà in astratto e mostriamo, invece, che cosa fanno e dicono gli uomini e le donne oneste”.

Un suo importante contributo è stato pubblicato nel primo libro della collana Vita FeltrinelliManifesto per una nuova economia” nell’ottobre 2012.  Nel febbraio scrisse per Vita un commento sulle dimissioni di Papa Benedetta XVI, Barcellona: io, non credente, “ferito” dalla forza di quell'uomo.

Il 3 aprile scorso un articolo sull’elezione di Papa Francesco che qui riportiamo nella giornata di mobitazione (preghiera – ovvero le parole utili – e digiuno) voluta da Francesco. Pietro Barcellona ha trovato oggi il modo più intimo di parteciparvi. Eccolo:

Il rischio di trasformare l'elezione di papa Francesco in un evento di intrattenimento sotto la spinta delle grandi emozioni che ha suscitato e dei dettagli delle sue prime azioni che vengono persino morbosamente narrate nei rotocalchi è grande. Non intendo perciò seguire i commenti che si sono affollati sulle scene inaudite del papa bianco in mezzo alla gente, sulla continuità o discontinuità del papato come istituzione "impersonale", sull'insistenza su alcune parole come "tenerezza" e "custodire". Cercherò invece di tradurre in parole le risonanze interne che ho avvertito sin dal momento dell'elezione, cercando di entrare dentro la logica di un evento straordinario.

Mi ha colpito subito la frase che cito a memoria "mi hanno preso quasi alla fine del mondo".  Potrebbe trattarsi di un lapsus, ma anche se così fosse le parole del Papa non si possono analizzare psicanaliticamente. La fine del mondo come vera e propria apocalisse che attraversa l'epoca che viviamo è diffusamente avvertita nei caratteri drammatici della crisi che l'Italia e l'intero mondo stanno subendo. Enorme diffusione della povertà anche nei paesi ricchi, disgregazione del tessuto sociale e persino delle forme di convivenza familiare, dissacrazione di ogni luogo e di ogni istituzione, senso di smarrimento e incomprensione di ciò che accade, caos politico e incombenza minacciosa di continui conflitti armati. Non siamo ancora consapevoli che tutti questi "segni dei tempi" stanno rendendo sempre più tangibile che davvero l'Occidente è arrivato al suo tramonto e che ci troviamo in una situazione di vero e proprio collasso di una civiltà.

 L'Europa non sa parlare più a se stessa e tantomeno riesce a comunicare con il resto del mondo gli antichi principi che ne hanno fatto un luogo privilegiato dello spirito nonostante le guerre e le tragedie umane immense come la shoah. Abbiamo costruito templi e castelli, palazzi di governo e piazze per l'agorà e adesso ci ritroviamo sommersi da moltitudini frettolose  che riempiono ogni luogo di una falsa festosità. Come è stato scritto anche le nostre passioni sono diventate tristi e ciò che l'uomo occidentale non riesce più a rappresentarsi è proprio quella letizia di cui parlava Francesco nella inaudita rappresentazione dell'intreccio tra gioia e dolore.  Per questo la prima ragione per la quale ho sentito una'immediata attrazione per papa Francesco è stata quell'espressione di venire dalla fine del mondo  e l'ho intesa come:  vengo nell'Occidente europeo a iniziare una storia che comincia da "un altro mondo".

Il mondo dell'America latina, che è stato per la rappresentazione occidentale un luogo di colonizzazione, sottosviluppo, dittature, è in realtà irriducibile all'Occidente e  non già per questi fenomeni di superficie certamente rilevanti ma perché  esprime nella vita delle popolazioni una "antropologia" assai diversa da quelle occidentali. Intendendo per antropologia ciò che gli uomini di un gruppo sociale pensano di se stessi non c'è dubbio che l'Occidente ha inventato l'Io e il "soggetto proprietario dell'oggetto-natura" che dopo la cacciata dal paradiso si è posto come il re del mondo, signore e padrone di tutte le cose che si trova di fronte, dalla terra  agli animali, alle persone. La declinazione dell'esperienza che ciascuno fa anche delle relazioni più intime prende le mosse sempre dall'Io che si propone come il protagonista assoluto della propria vita. Anche quando si parla delle cose più intime, dell'amore e dell'amicizia è sempre l'Io che compie il primo passo e stabilisce le forme e i modi del rapporto con l'altro, che in realtà è sempre un alter ego.

Nell'America latina, invece, per misteriose ragioni forse anche legate a inevitabili mescolanze alle popolazioni indigene e per l'enorme presenza di foreste e pianure, di montagne e valli che sovrastano il territorio, si è sviluppata un'antropologia della relazione, una dimensione del gruppo sociale come costitutivo della convivenza e come luogo privilegiato per la formazione dello stesso individuo. Ho un nipote argentino e ho ospitato per lunghi periodi messicani e brasiliani. Sono stato sempre colpito dalla dolcezza del carattere e dal rapporto con le cose. Non un rapporto possessivo e utilitaristico, ma l'atteggiamento di chi deve custodire ciò che è stato creato e che appare disponibile alla sua affettività. Il persistere di una particolare attitudine ad organizzare con gli ospiti incontri conviviali dove bere e mangiare non è puro e frettoloso consumismo, ma lento assaporare i gusti del cibo. Popoli che si esprimono musicalmente, che hanno un rapporto con gli strumenti musicali popolari, che danno un timbro canoro anche al muoversi delle gente dei centri urbani. Non abbiamo mai voluto capire che l'America latina è un'altra civiltà.

 Mi è accaduto di ospitare un monaco che ha in custodia un'intera area dell'amazzonia e che ha nel volto le tracce dell'ascendenza indigena. Ho ascoltato storie in cui nella foresta ha istituito reti radiofoniche nelle quali, insieme alle sue orazioni e ai suoi racconti del vangelo, una sorta di santona pagana suggerisce ricette per curare ogni male con le erbe e con le polveri dei serpenti essiccati al sole. Non intendo mescolare sacro e profano, ma voglio sottolineare che, rispetto all'Occidente civilizzato che oggi vive in una sorta di irreligiosità naturale, nel popolo del continente latinoamericano è ancora diffuso un sentimento religioso della natura.

Papa Francesco nelle sue prime manifestazioni, almeno a quello che risulta guardando i filmati, è uscito dal tempio ed è entrato tra la folla cercando proprio un contatto fisico con le persone che non ha precedenti. Nei suoi discorsi l'insistenza sulla custodia del creato e sulla tenerezza verso il mondo suona già come una discontinuità rispetto a tutte le nostre elucubrazioni teoriche sul surriscaldamento della terra e sulla possibile svolta ecologica dell'economia.  Custodire il creato è un'espressione che ti fa sentire immerso in una specie di sentimento oceanico dove ti senti parte di ciò che devi custodire e non soltanto un padrone che amministra con più prudenza i propri beni.  Il riferimento alla povertà può essere inteso, come sta accadendo, come una sorta di ritorno alle correnti pauperistiche che hanno attraversato la Chiesa, ma proprio la scelta del nome Francesco dà alla rappresentazione dei poveri un'altra intonazione. Non si tratta di fare beneficienza e di esercitare più o meno gratuitamente la carità verso i malati e  i diseredati, ma al contrario assumere la loro condizione come il punto di partenza per vedere il mondo con altri occhi. Il povero, anche quando si trova nelle condizioni più drammatiche e nella mancanza di cibo e di cure,  incarna colui che non ha niente da difendere, che come scriveva Marx ha soltanto le catene che gli altri gli hanno imposto. Il povero è colui che non ha niente da difendere e perciò è in una condizione di apertura psicologica per accogliere. Il povero è il simbolo di una possibile società dell'accoglienza. La povertà non si deve compensare, ma condividere nello spirito della predicazione di Cristo che solo chi è capace di perdere la vita potrà salvarsi e ritrovarla. Si formeranno leggende e mitologie  su questo papa e purtroppo il sistema mediatico ne farà occasione di dibattiti più o meno dotti fra credenti e non credenti. Ma se una volta tanto l'arroganza occidentale, nonostante la nostra miseria attuale, riuscirà a capire il messaggio che chiede una vera e propria conversione non sacramentale ma di vita pratica molte cose nuove potranno accadere.

La prima cosa che mi auguro è che la conversione a un'altra visione del mondo tocchi dall'interno lo stesso mondo cattolico che a me personalmente appare assai lontano da ciò che l'imitazione di Cristo dovrebbe suggerire nello stile e nelle azioni. Papa Francesco ha regalato, se ho capito bene, un'immagine della Madonna dell'umiltà  al suo predecessore papa Ratzinger. L'umiltà non è l'ipocrita manifestazione dell'ossequio, ma il lasciare libero accesso all'amore che circola negli incontri fra uomini. Umiltà vuol dire disarmarsi dai propri paramenti, siano essi pure le toghe accademiche, per istituire una relazione laica con un'altra persona da cui si vuole essere amati. L'umiltà è una richiesta di amore. L'essere pronti ad aprirsi alla intimità e alla confidenza. Il dono di Francesco mi è sembrato molto simbolico sia perché chiama in  causa la presenza della donna nell'esperienza delle relazioni sia perché proprio la donna può introdurre in una nuova cultura la sensibilità necessaria per accogliere ogni piccolo d'uomo che viene su questa terra.

Abbiamo sperimentato molti grandi papi in questi ultimi decenni, ma il timbro dell'Europa con tutta la sua presunta superiorità ha sempre echeggiato nel corpo ecclesiale. La Chiesa non è stata Chiesa pastorale e troppo spesso i vescovi  si sono contaminati con la politica dei poteri. Credo che papa Francesco abbia riaperto la partita del rapporto tra il cristianesimo e il mondo in termini, che superando tutte le dispute teologiche su fede e ragione, imponga a chiunque l'incontro con il Testimone dell'esperienza dell'amore tra padre e figlio, tra fratelli e tra la donna e l'uomo, come si trova soltanto nei vangeli.

QUI il ricordo di Giuseppe Frangi e di Marco Dotti


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