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I rom nella Capitale diventano un film

“Container 158” racconta lo stato di abbandono del “villaggio attrezzato” in via di Salone, periferia di Roma. Il documentario, patrocinato da Amnesty Italia, verrà proiettato l’11 dicembre in prima italiana

di Redazione

“Container 158è un film che racconta la vita nel campo rom più grande d’Europa. A Roma, in via di Salone, un migliaio di persone di etnia uguale ma nazionalità diversa convivono dentro uno spazio invivibile: lontani da tutto e da tutti, in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. È il primo documentario italiano che ha il coraggio civile di riportare il dramma di una popolazione sconosciuta, facendo parlare i diretti interessati.  Diretto da Stefano Liberti –giornalista e scrittore che da anni pubblica reportage di politica internazionale sul Manifesto e  su altri periodici italiani e stranieri- e Enrico Parenti –giovane regista, ma con già alle spalle una notevole produzione- è stato realizzato col patrocinio di Amnesty International -che ha anche prodotto un documento (in allegato) sui “villaggi attrezzati” della Capitale, in cui circa 4.000 rom vivono segregati. Mercoledì 11 dicembre, presso l’Auditorium San Fedele, ci sarà la prima italiana della pellicola. L’evento , introdotto e moderato da Gad Lerner,  rientra tra le iniziative della Giornata mondiale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. 
Abbiamo parlato con Liberti. Che da padre –ha un figlio di sei anni- si è immedesimato nelle storie dei bambini che ha incontrato. Costretti a sopportare, oltre alla povertà e alla precarietà, un marchio sociale che li addita come “diversi”, da cui difficilmente riusciranno a liberarsi.
 
 Qual è la novità del vostro documentario?
«A livello documentaristico siamo stati i primi in Italia a raccontare e a dare voce alla sofferenza dei rom. Nel cinema di fiction giusto Soldini e pochi altri se ne sono occupati. Ed è strano, perché a livello europeo l’argomento è stato ben più battuto».
 
Che opinione hai del cinema di Emil Kusturica, celebre per i suoi capolavori sul mondo gitano?
«Mi sono accorto, proprio stando dentro il campo, che gli stessi rom hanno un’adorazione per Kusturica. Grazie a loro ho rivisto la mia iniziale perplessità nei riguardi dei suoi film. Sicuramente lui ha scelto una rappresentazione pittoresca, però molto di quello che ha raccontato è vero. Ad esempio in “Tempo dei gitani” la descrizione che fa dei matrimoni è molto verosimile»
 
Siamo d’accordo sulla definizione di ghetto per il campo rom di Salone?
«Nel momento in cui tu prendi mille persone e le rinchiudi in una struttura recintata e videosorvegliata, è chiaro che si tratta di un ghetto. Oltretutto ci sono dentro persone della stessa etnia e nazionalità diverse,  e alcuni di loro si odiano vicendevolmente –ad esempio i rumeni coi montenegrini, i montenegrini coi bosniaci. Ci sono ancora residuati delle guerre balcaniche, per quanto col passare degli anni la tensione stia allentando. Insomma l’amministrazione comunale di Roma ha speso dei soldi non per integrarli, ma per acuire la loro emarginazione»
 
Come è avvenuto il casting?
Tutto è nato da un mini-documentario di cinque minuti, poi ci siamo resi conto che valeva le pena di raccontare la loro storia più diffusamente. Abbiamo scelto soprattutto le persone più desiderose di parlare di sé, che credevano nel progetto cinematografico ma anche politico. Tra di loro c’erano quelli disposti a confidarsi: sono i protagoniste del nostro film»
 
Dal punto di vista emotivo cosa vi ha toccato di più?
«Sicuramente l’innocenza dei bambini, condannati a un destino diverso dai nostri figli. Partono svantaggiati e arriveranno svantaggiati: quando non puoi interagire coi compagni di classe perché le scuole stanno a venti km o non hai i documenti che attestano la tua cittadinanza, è evidente che sei obbligato a vivere con un marchio di diversità»
 
Che sensazione vi dà sapere che a Roma c’è una situazione di degrado simile?
«Sono abituato a girare il mondo, , ma ti garantisco che mi ha fatto più impressione Salone perché vedi il terzo mondo in casa, a venti km dal centro di Roma».
 
Il Comune di Roma ha visto il vostro film?
«Abbiamo invitato il nuovo assessore alle politiche sociali all’anteprima del festival di Roma, ma per problemi personali non è potuta venire. Ufficialmente per ora nessuna reazione, ora faremo una proiezione al Senato, vedremo un po’ chi verrà». 
 
Avete visto disperazione tra quelle mille persone, ma anche voglia di riscatto?
«In alcuni sì. In molti casi però si è creato un sentimento di rassegnazione: vivono nel microcosmo del Campo,  il fuori lo vedono come minaccioso. Altri invece, più consapevoli,  accetterebbero anche subito di spostarsi in una casa popolare»
 
Siete riusciti a intravedere la bellezza, in un panorama desolante?
«La bellezza è nel gioco, nella dimensione di comunità tra i bambini. Che tra l’altro sono stati i più difficili da gestire: magari ci dicevano “venite subito”, poi arrivavi lì e non li trovavi. Con alcuni bambini abbiamo instaurato un buon rapporto di confidenza, si fidavano di noi»
 
Quando permetterai a tuo figlio di sei anni di vedere il film?
«Ah ma lui il film lo conosce già: è venuto varie volte al campo, ha seguito le varie fasi del montaggio, poi ha fatto un piccolo  cammeo che lo appassiona»
 


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