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Vecchiato: basta con questo welfare dissipativo

Durissima critica di Tiziano Vecchiato (Fondazione Zancan): le politiche di welfare - social card in testa - sono vecchie, partono da analisi sbagliate, non producono risultati e consumano risorse in maniera irresponsabile. È ora di dire basta (magari attraverso la Corte dei Conti)

di Sara De Carli

La Fondazione Emanuela Zancan presenta oggi pomeriggio a Padova il suo rapporto annuale sulla lotta alla povertà, intitolato Rigenerare capacità e risorse (ed. Il Mulino). I dati statistici sono noti: l’Italia è ancora nella morsa della crisi e tra il 2011 e il 2012 sono cresciuti di circa un milione  e mezzo sia i poveri in povertà relativa sia quelli in povertà assoluta. Nel 2012 l’8% delle persone (4milioni 814mila) si trovava in povertà assoluta, contro il 5,7% del 2011.  Per Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, davanti a tutto ciò «le risposte sono fallimentari». Non è questione di soldi che mancano (non principalmente), ma di risorse «che non vengono impiegate in modo adeguato» e senza che producano un impatto di cambiamento, dal momento che in Italia, nel 2011, i trasferimenti sociali (escluse le pensioni) hanno ridotto la quota di popolazione a rischio povertà dal 24,4% al 19,6%, circa la metà di quel che succede mediamente in Europa (dal 26,3% al 16,9%). C’è quindi un «deficit di strategia», un’insistenza su un modello di welfare basato sul raccogliere e redistribuire che «consuma risorse in modo irresponsabile», consumando «più risorse di quelle che ha a disposizione», «senza verifiche di rendimento». Ecco come si potrebbe cambiare.

Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Emanuela Zancan


I dati ci dicono che la spesa per l’assistenza sociale non solo non è diminuita, ma è aumentata. Perché questa non è una buona notizia?
Vuol dire che c’è stata attenzione politica al tema della povertà e questo è certamente un segnale importante. Però è altrettanto vero che in questi stessi anni la domanda e il bisogno sono aumentati  in maniera importante, come testimonia anche la fortissima pressione che vivono le fondazioni bancarie e private e le Caritas. La tenuta sociale è dovuta proprio alla capacità che l’Italia ha di comporre le diverse forme di aiuto.

Qual è il problema a livello istituzionale?
 Non si capisce come mai a livello di Governo e di Ministeri competenti ci si sia ostinati a proporre soluzioni di cui si sa già che non possono funzionare.

È una critica alla social card, anche nelle sue innovazioni e varianti?
La social card come il reddito minimo sono soluzioni di assistenzialismo, che burocratizzano l’aiuto perché tutto avviene tramite delle domande burocratiche, chi ha bisogno di aiuto e chi può darlo non si incontrano mai. Inoltre creano ai Comuni enormi quantità di lavoro aggiuntivo, proprio per esaminare le domande: il fatto è che i Comuni sono già al limite e che il personale qualificato dei Comuni potrebbe essere utilizzato meglio e in maniera più efficace per altre cose che non per esaminare se le domande hanno o no i requisiti formali necessari.

Ad esempio?
Ad esempio a incontrare le persone. Questo lavoro burocratico invece è un extra lavoro per non aiutare. Quando parlo di consumo irresponsabile delle risorse intendo il fatto che non si faccia una analisi dei costi e benefici: quelle che spesso sono denunciate come inefficienze dei Comuni in realtà spesso non sono tali, perché l’analisi fatta dalla politica è lontana dalla realtà e la valutazione di precisione fatta è sbagliata.

È quel che è successo con la social card sperimentale: moltissime domande, tempi lunghissimi per esaminarle, pochissimi idonei. Risultato: nessuna famiglia ha ancora ricevuto un euro, due anni dopo il via libera alla sperimentazione.
Il problema è che chi lavora nei territori sa benissimo che avere 10 euro più della soglia fissata dal Ministero non ti rende certo ricco. Allora a chi giova fissare scalini e scaloni? Serve solo a discriminare le persone. Senza dire dell’inutilità di spendere soldi per verificare delle ovvietà: è ovvio che se tu affianchi al puro trasferimento monetario un aiuto in servizi, mirato ad attivare le persone, i risultati che ottieni saranno migliori. Lo sappiamo già, facciamolo! Fare una sperimentazione diventa invece una scusa per la politica, per non decidere: ma noi siamo in emergenza, non si può più procrastinare. Io mi aspetto che la Corte dei Conti valuti dell’uso di quei soldi e dica chiaramente che certi errori non vanno riprodotti. La social card sperimentale alla fine brucerà 50 milioni per fare le stesse cose che quelle stesse città già facevano con 20/25 milioni: è evidente che il conto fatto è sbagliato. Che poi non è successo solo a livello nazionale: anche le Regioni, di fronte ai ritardi nell’arrivo della social card sperimentale, hanno previsto erogazioni simili. Per stare al Veneto, che conosco bene, hanno messo sul piatto 2 milioni di euro e 35mila famiglie hanno chiesto aiuto, con un carico inverosimile di lavoro. I criteri erano così restrittivi che sono risultate idonee 1.233, pari al 3,6%, che hanno avuto 1.500 euro. Il rapporto costo/beneficio dove sta?

E quindi?
Questi sono esempi di welfare dissipativo. Bisognerebbe invece togliere la burocrazia e investire quei soldi per rigenerare le risorse delle persone. Il welfare generativo pensa in termini di investimento, non di assistenza. Per cui che male c’è se – una volta che ti sei rimesso in piedi – sei chiamato a restituire l’aiuto economico che hai ricevuto? Con il microcredito o con forme di lavoro volontario, destinato a utilità sociale. Non solo non è scandaloso, ma vorrebbe dire acquisire la coscienza che dalla crisi si esce solo investendo, trasformando le risorse in valore a disposizione. Certo poi bisogna stare attenti che questo lavoro non vada a ripianare le inefficienze del pubblico: i sindacati dovrebbero vigilare che il bene economico prodotto sia gestito come un investimento. Bisogna inventare i modi, ma questa è innovazione sociale!



 


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