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Beruschi: «L’Italia di oggi? Un dramma buffo»

Il popolare attore milanese, protagonista dello spettacolo “W Verdi”, illustra le ragioni per cui le opere del geniale compositore risultano sempre attuali. Per riassumere la situazione caotica del nostro Paese, cita un passo del capolavoro verdiano “Un ballo in maschera”: «Che baccano sul caso strano / E che commenti per la città»

di Francesco Mattana

Eppur si muove, questo nostro Paese da sempre accusato di immobilismo. Può darsi che l’Italia non sia mobile come la donna descritta dal Duca di Mantova – nella celebre aria del Rigoletto – ma di sicuro non c’è mai da annoiarsi alle nostre latitudini.

Enrico Beruschi è la persona giusta a cui rivolgersi per imbastire una riflessione – ironica, spiazzante, anticonvenzionale – sulla nostra attualità. Riflessione, la sua, che parte dalla lirica: qui sta l’originalità, anche l’azzardo per certi versi. Il comico milanese, che ha raggiunto una notorietà enorme grazie a programmi di culto come Non stop e Drive in, da alcuni anni porta in scena la sua passione per le opere dei grandi compositori. In particolare lo appassiona Giuseppe Verdi: cominciò a frequentare la Scala da adolescente, e il battesimo operistico avvenne niente meno che con Traviata – sul palco, cantava la divina Maria Callas.

W Verdi, andato in scena al Teatro di Milano alcune settimane fa, è uno spettacolo nel quale, per la prima volta nella sua carriera artistica, riesce a coniugare il talento cabarettistico e le competenze in ambito musicale. La somiglianza fisica col “cigno di Busseto” c’è tutta: quando si presenta al pubblico con un cordiale “piacere, sono Giuseppe Verdi”, viene da pensare che il Maestro sia realmente tornato in mezzo a noi. Che poi, in realtà, quest’ultimo non ci ha mai abbandonato: le sue melodie sono immortali e inoltre – elemento niente affatto da sottovalutare – le sue opere parlano di noi, della nostra vita quotidiana, di sentimenti e azioni che da sempre ci riguardano come uomini. Beruschi, uomo sensibile e sempre attento al mondo che lo circonda, queste cose le sa. Ce le spiega, con chiarezza, in questa intervista.

La passione per il bel canto a quando risale?
«Credo di averla assorbita col latte materno. Nella compagnia che frequentava mia madre c’era un musicista, che poi è diventato primo oboe nel Dopoguerra alla Scala: grazie a lui usufruivano di sconti per seguire i concerti. A sei anni mi beccai un febbrone di quelli pesanti: ai tempi non c’erano i rimedi di oggi, quindi fui costretto a trattenermi a lungo a casa. Durante la degenza la mamma, vedendo i fiori che sbocciavano nell’abbaino del palazzo di fronte, cantava l’aria della Boheme “Mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia”. Quindi la passione per la lirica risale all’infanzia. Poi, a 16 anni, sono andato alla Scala per la prima volta a vedere la Callas protagonista de La traviata. Direi che sono partito benino».

Come si fa a trasmettere ai giovani questa tua passione?
«È quello che cerco di fare quando vado in giro nei teatri a raccontare le opere. Non è difficile innamorarsi del bel canto, basta conoscere meglio di cosa parlano le opere. Tutti hanno sentito il passo della Turandot “Vincerò”, ma nessuno sa cosa diamine dovesse vincere il personaggio: tu prova a fare ‘sta domanda, non ce n’è uno che lo sappia. Oppure “Libiamo ne’ lieti calici” della Traviata: ma perché festeggiano questi signori?».

Hai avuto modo di conoscere personalmente i protagonisti della lirica?
«Ho chiesto quattro autografi nella mia vita: a Giulietta Simionato, Giuseppe Di Stefano, Maria Callas e Mario Del Monaco. Qualche anno fa ho avuto modo di incontrare la Simionato: faceva da madrina al Circolo della Stampa. Siccome era già molto anziana, non voleva far tardi: le ho subito offerto un passaggio, per me era un grandissimo onore. Poi piovicchiava: mi sarei trasformato in tappeto pur di non farle bagnare i piedi. Un altro incontro importante è avvenuto con Di Stefano: l’ho conosciuto a Palermo, all’Hotel Delle Palme, circa una trentina d’anni fa. Mentre facevo colazione, sentii da lontano una voce soave che cantava: era il tenore che faceva le prove. Mi sono precipitato nella sua stanza: appena mi ha visto ha detto “Te sei il Beruschi? Sei un grande!”, e mi ha abbracciato con molto affetto. Lui che faceva i complimenti a me, ti rendi conto?».

Perché il repertorio di Verdi è così attuale?
«Verdi era un compositore molto popolare, i temi di cui trattava sono universali, stanno in piedi da secoli se non da millenni. Infatti io me la prendo sempre con quei registi che vogliono “modernizzarlo”. Con quali risultati? Questi loro esperimenti umiliano i cantanti, i coristi, le comparse e anche il pubblico che in buona fede è andato a teatro».

L’Italia in cui viviamo a quale genere del repertorio lirico appartiene?
«Viviamo in un dramma buffo. Quello che emerge guardando la tv è la rabbia sotterranea della gente, però questa rabbia se la osservi con sguardo umoristico diventa buffa. Ci sarebbe un modo molto semplice per arginare le zuffe nei talk-show. Il conduttore dovrebbe domandare a chi si infervora: “Mi scusi, ma lei per chi ha votato? È soddisfatto dell’operato di questo politico?”. Se in risposta arrivano altre urla, allora il presentatore gli tapperebbe la bocca così: “Lei non ha diritto di parola, continui a fare l’asino alla macina ben tranquillo” ».

A proposito di rabbia tu conosci da molti decenni Grillo, avete anche lavorato insieme in tv a Luna park. Cosa ne pensi del “forconismo”?
«Ho avuto modo di conoscere bene Grillo, quindi mi sento di dire che secondo me questo suo infervorarsi non è molto sincero. Siamo stati amici per tanti anni, trottavamo per lavoro da una parte all’altra: quanti panini da viaggio schifosi abbiamo mangiato insieme. Grillo ha sempre avuto un umorismo “aggressivo”, anche nella vita privata. Gli piaceva fare degli scherzi anche pesanti. Sono passati tanti anni, ma alcune delle burle che si era inventato sono ancora oggi irriferibili: qualcuna delle vittime della sua “ferocia” potrebbe non gradire che se ne parli in un’intervista».

Secondo te c’è una linea di continuità tra Violetta, protagonista della Traviata, e le Olgettine?
«Credo che la figura di Violetta si avvicini di più, come concetto, alle donne di spettacolo “arrivate”: vita sotto i riflettori, foto sui giornali, amori altalenanti pompati dai media. Per quanto riguarda invece le ragazze non “arrivate”, alle giovani colleghe che hanno ricevuto proposte da un uomo potente consiglio sempre: usate il contraccettivo orale, dite di no e la cosa si risolve in fretta».

I tre personaggi chiave della politica italiana – Grillo, Berlusconi, Renzi – quali personaggi operistici ricordano? Cominciamo da Grillo.
«A Beppe piace scherzare, ma lui sa che anch’io sono così. Quindi, con ironia, dico che ultimamente mi ricorda Macbeth: faceva fuori questo e quell’altro, era un tipo disposto a tutto. Forse la figura che più si avvicina a Grillo è Masaniello, personaggio storico che non appartiene alla lirica».

Berlusconi?
«Qualcuno forse si dispiacerà, ma ho sempre avuto un buon rapporto con Berlusconi, quindi cito un personaggio positivo: mi fa venire in mente il Conte Riccardo del Ballo in maschera, che deve fronteggiare le trappole dei cortigiani. Conosco Berlusconi da molti anni: fu lui a insistere perché, nei primi anni Ottanta, passassi alla Fininvest. Pensa che di recente ho incontrato la figlia Barbara: le ho ricordato che da piccola recitava con la sorella Eleonora il mio sketch di Enrico e Margherita. Silvio, per far capire alle bimbe chi è che comandava alla Fininvest, venne a trovarci negli studi di Sabato al circo, programma di successo che andava in onda su Canale 5: registrammo una scenetta – rigorosamente privata – inventata lì al momento, in cui lui si alleava a Margherita per maltrattare il sottoscritto. Prima che iniziassimo a recitare si rivolse al pubblico in sala: “Qualcuno di voi riprenda tutto e mi dia la cassetta, voglio vederla in casa con le mie bambine” ».

Renzi?
«Dei tre è l'unico che non ho mai conosciuto di persona. Mi sembra, così a occhio, una persona abbastanza impulsiva. Lo abbinerei a Manrico, il protagonista del Trovatore: me lo vedo Renzi che recita l'aria "Di quella pira l'orrendo foco". Naturalmente mi auguro, per il bene dell'Italia, che abbia un destino molto più fortunato di Manrico: l'opera di Verdi finisce malissimo».

L'opera lirica che più di tutte riassume la nostra Italia?
«Senz'altro Un ballo in maschera: “Che baccano sul caso strano, e che commenti per la città”.

Parliamo un po' del passato: hai fama di bartaliano…
«Ero un bartaliano di ferro. Quando venne a fare uno sketch da noi al Drive in avvisai tutti i tecnici e le comparse: “Ragazzi, siamo di fronte a una leggenda, quindi tutti al suo servizio”. Poi mi ricordo molto bene di quando la sua vittoria al Tour de France salvò l’Italia dalla guerra civile, dopo l’attentato a Togliatti. Io avevo sette anni ma percepivo la tensione che si tagliava a fette: una volta che “Ginettaccio” vinse al Tour, l’atmosfera divenne all’improvviso allegra per tutti, la gente tornò nelle strade».

Poche settimane fa c’è stato l’anniversario della morte di Dalla. So che eravate amici.
«Ci incontravamo al mare a Rimini alla fine degli anni Settanta: all’epoca eravamo praticamente due sosia, giocavamo a prendere in giro i bagnanti facendo io Dalla e lui Beruschi. Ho molte foto in casa che ci ritraggono insieme, ci stimavamo molto».

È capitato che siano venuti a mancare di recente, lo stesso giorno, due artisti ai quali eri legato: Piero Mazzarella e Andrea Brambilla, in arte Zuzzurro.
«Volevo molto bene a entrambi, li stimavo tanto. Poi alle volte succede, anche tra persone che si vogliono bene, qualche piccola incomprensione. Nel caso di Mazzarella, seppe che volevo recitare a teatro un testo in milanese, e mi disse: “Uè pistola, cosa fai mi rubi il mestiere?”. Non scherzava: era veramente incazzato, infatti ci rimasi un po' male. Andrea l'ho sempre considerato come un figlio: decisi di assumerlo – a mie spese – come mio autore personale per il varietà Luna park. Poi mi chiamarono, lui e Nino (Gaspare, n.d.r.), per Emilio. Sono orgoglioso di aver fatto parte del cast: è un programma che ha lasciato un segno profondo nella storia della televisione».

Concludiamo coi progetti televisivi che hai nel cassetto.
«Il punto è che dal cassetto li ho tirati fuori più volte. Ad esempio ho in mente un gioco-varietà: l'ho proposto a Mediaset, ogni volta mi rispondono “è interessante, ci penseremo”. Poi ho presentato a Fedele Confalonieri un progetto che riguarda la lirica: anche lui mi ha detto che era bello – e lo diceva sinceramente, perché è un uomo che ama la cultura – ma il problema è che alla fine non decide lui. Eppure, forse, basterebbe una telefonata di Berlusconi a questi signori: la situazione si sbloccherebbe. Mi vuole bene, lo farebbe per me: sono io che non ho mai amato chiedere favori ai politici. E non ho mai amato fare politica: tempo fa mi era stato proposto un incarico amministrativo nel comune di Arese, dove vivo, ma alla fine declinai l’invito. L’è minga el me mestee».


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