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La Camusso? Il suo è un sindacato in difesa

Savino Pezzotta, ex leader della Cisl dopo la relazione del segretario Cgil: «la conosco e la stimo, ma è ancora prigioniera di modelli di una storia passata». Renzi? «Non ce l’ha coi sindacati, semplicemente li considera ininfluenti»

di Lorenzo Alvaro

Il tema della rappresentanze è tornato prepotentemente di attualità con l'intervento di Susanna Camusso al congresso nazionale della Cgil a Rimini.
Uno dei passaggi più emblematici del suo discorso è stato «contrastiamo e contrasteremo l’idea di un’autosufficienza del Governo, che taglia non solo l’interlocuzione con le forme di rappresentanza, ma ne nega il ruolo di partecipazione e di sostanziamento della democrazia. Una logica di autosufficienza della politica che sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione».
Uno speach che ha avuto una larga eco sui giornali e che ha riportato la mente a sette anni fa. Nell’ottobre 2007 infatti sul numero del mensile CommunitasIl sociale tra politica e antipolitica” Savino Pezzotta, in un suo intervento dal titolo “Autonomia sociale come sostanza della democrazia”, scriveva «il pluralismo e l'autonomia dei corpi sociali intermedi sono un valore sostanziale della stessa democrazia. Poiché la politica non ha bisogno di “amici”, ma di sollecitatori, di propositori. Il compito che la rappresentanza sociale oggi può giocare nei confronti di quella politica non è agire solo nei confronti di un partito o di uno schieramento, ma a tutto campo, per affermare la positività democratica del pluralismo. A un patto: riformarsi». Nato nel Natale 1943, è operaio tessile da quando aveva 16 anni, iscritto alla Cisl dal 1963. Nel dicembre del 1998, entra a far parte della Segreteria Confederale della Cisl di cui è segretari Sergio D'Anton, dove in seguito assume le funzioni di Vicario. Il 4 dicembre 2000 viene eletto Segretario Generale della Cisl, incarico che gli venne riconfermato, con il più ampio consenso di voti, dal Primo Consiglio Generale della Cisl, sia dopo il XIV Congresso del Giugno 2001 che dopo il XV Congresso del luglio 2005. È stato vicepresidente della CISL Internazionale e membro del Comitato Esecutivo della CES. Una storia che testimonia quanto l’attenzione di Pezzotta sia naturalmente volta all’analisi del rapporto fra politica e mondo del lavoro.
 

Savino Pezzotta

Pezzotta, ha seguito il discorso di Susanna Camusso a Rimini?
Sto seguendo l’insieme del dibattito sindacale perché appartiene alla mia storia e alla mia vita. Del suo intervento ho solo sentito alcuni spunti. Ho avuto però l’impressione, nonostante io abbia stima per Susanna Camusso che conosco e con cui ho lavorato, di un sindacato che fosse estremamente in difesa, non perché sottoposto all’attacco di un nemico, ma perché in difficoltà nel collocarsi all’interno di quello che sta avvenendo. Da qui l’uso di paradigmi, interpretazioni e  modelli che appartengono più ad una storia che ad una dimensione attuale. Che tipo di sindacato vogliamo oggi, come sta il sindacato dentro i cambiamenti che stanno attraversando il mondo? A queste domande non ho sentito risposte. Il sindacato non può essere solo a difesa di un passato glorioso perché alla fine diventa sterile. Le eredità se non vengono alimentate e rinnovate finiscono.

Nel 2007 parlava di una rappresentanza che doveva riformarsi. A che punto siamo oggi?
È troppo tempo che sono fuori dal sindacato. Anche qui, quando si dice riformarsi non si dice una parola corretta. Nel senso che non si capisce il riformarsi per che cosa. Io lo potevo dire stando dentro al sindacato perché vedevo le contraddizione del mio agire e della mia organizzazione. Stando fuori è difficile. Però bisogna  prendere atto di alcune questioni.

Quali?
Innanzitutto che il modello industriale non è più quello di una volta, non abbiamo più le grandi aggregazioni di massa ma abbiamo un lavoro che tende parzialmente e progressivamente ad individualizzarsi. Ed è un problema. Per cui gli slogan collettivi tipici del sindacato faticano a fare presa. Oggi è più facile fare battaglie, anche ad ampio raggio, ma per alcuni diritti civili parziali. Non ci sono più esclusivamente le grandi questioni dell’economia e del reddito. Ci sono anche questioni che riguardano la vita individuale e personale. Pensiamo alla questione dell’omosessualità o delle donne. Anche il sindacato deve cambiare la modalità. Deve uscire da una visione tipica di ieri, della società di massa.

Secondo?
Che bisogna tenere presente poi che la globalizzazione non è un’astrazione ma un fatto che ci ha già cambiato la vita.

Al centro del mirino c’è la concertazione. Lei scriveva nel 2007 che «la stessa concertazione non sembra più dare le risposte che ha dato nel recente passato, infatti si discute molto, si contratta poco e si finisce il più delle volte senza accordi scritti, ma ci si affida al decisore che si spera di aver lobbisticamente condizionato». Come deve comportarsi il sindacato?
Lo dicevo allora perché quel tipo di cambiamenti del sistema politico chiedevano nuove modalità. Come lo chiedono anche oggi. Quando ci lamentiamo che non c’è concertazione dovremmo in realtà fare l’operazione opposta. Mi spiego: se il Governo mi snobba o non vuole concertare significa che la mia capacità di mobilitazione è bassa. Altrimenti mi chiamerebbe. Affermando che non si può negare la concertazione si afferma una propria totale debolezza. Renzi dice “ce ne faremo una ragione”. Non vedo in questo un anti sindacalismo, come c’era con le destre. Vedo invece una presa di coscienza del fatto che il sindacato non è più in grado di condizionare e determinare certi flussi, e soprattutto non è più in grado di avere la leadership dei cambiamenti necessari. Questo perché è cresciuto il pluralismo della società, che è più individualizzata, in cui i bisogni sono diversi. Che è per altro una conquista determinata dal sindacato. E poi la concertazione non può essere individuata come un fine, confondere mezzi e fini è un'altra malattia della nostra epoca.

Ma com’è possibile che il sindacato non determini più un cambiamento, è perchè non riesce a comprendere proprio i cambiamenti della nostra epoca?
Perché ragiona ancora in termini esclusivamente economici e di distribuzione del reddito. Bisogna invece che cominci a capire quali sono le culture che sono passate in questi anni. L’ondata neoliberista ad esempio, che personalmente ho cercato di contrastare e che non va bene per la società attuale, non è che non ha inciso nel corpo sociale. Certe culture hanno permeato la società. Il sindacato deve accogliere questi cambiamenti. La cosa che mi stupisce quando parliamo di disoccupazione è che stiamo sempre sul dato economico, sociologico o statistico,  ma qui c’è anche un dato esistenziale. La sofferenza di chi non ha lavoro non è solo la mancanza di reddito ma anche la mancanza di ruolo, riconoscimento sociale e funzione. C’è una sofferenza che va oltre l’economia. E se il sindacato non la coglie sbaglia. Allora basterebbe Grillo che propone un reddito senza lavoro. 

Cosa significa dire che «la rappresentanza politica non ha bisogno amicizie quanto di sollecitatori che producano rappresentanza di bisogni desideri e finalità»?
È semplice. Non vedo il sindacato come quello che sale le scale di Palazzo Chigi per adattare, concertare o contestare. Io vedo il sindacato che è chiamato a Palazzo Chigi perché ha sollecitato delle cose, le ha mobilitate e le ha fatte diventare coscienza comune della gente diventando sollecitazione alla politica.  Perchè invece di andare a Palazzo Chigi è andato prima nelle strade e nei quatieri. Non un’alleanza con la politica. Il sindacato deve essere un provocatore, nel senso buono e deve essere autonomo, come la politica del resto.

Per questo sono fondamentali autonomia e soggettività nel rapporto tra rappresentanze?
Certo. L’autonomia è la forza dei corpi intermedi. Noi parliamo del sindacato dei lavoratori ma non è che le altre rappresentanze stiano meglio. Il fatto che si abolisca il Cnel ad esempio è quasi naturale visto che non ha funzionato. Perché? Doveva essere la camera in cui le rappresentanze si esprimevano. È diventata un’altra cosa. Sono tutti segnali di una società che è in trasformazione e che i nostri schemi non sono più in grado di interpretare la realtà e dargli rappresentanza.  


 


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