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Verso la società generosa

Nel loro ultimo libro, Pier Mario Vello e Martina Reolon descrivono i paradossi che frenano Stato, mercato e mondo solidale.Per uscire dalla crisi occorre cambiare il loro e il nostra paradigma d'azione. E la filantropia deve farsi carico di questa "nuova svolta educativa"

di Marco Dotti


Secondo un celebre adagio un tempo in uso tra economisti e antropologi, esisterebbero cose che possono essere oggetto di commercio e di scambio, ed è giusto che siano oggetto di commercio e di scambio. Esisterebbero poi cose che possono essere donate, ed è giusto che siano oggetto di dono. Si darebbe poi l’esistenza di cose che non possono essere né vendute, né donate, ma vanno custodite. Pena una crisi senza fine o rimedio. La confusione scriteriata fra i tre piani ha portato al punto critico in cui ci troviamo. Un’impasse pratica, non meno che teorica,  che ha visto – sempre per tornare al vecchio adagio –  ammuffire nei magazzini ciò che andava venduto, vendere ciò che doveva e poteva essere donato e infine svendere ciò che andava semplicemente custodito.

Nel 1924, quando Marcel Mauss pubblicò il suo celebre Saggio sul dono, aveva sotto gli occhi lo stesso problema. Cinque anni dopo la Grande Guerra, cinque anni prima della Grande Crisi di Wall Street, con la Rivoluzione d’Ottobre nel mezzo, Mauss tentava la strada di un altro paradigma. Ciò che è in gioco nel dono, suggeriva sottotraccia Mauss, è proprio il rapporto tra ciò che può essere oggetto di commercio e ciò che può essere donato. Ma a tener saldo questo rapporto è proprio “ciò che va custodito”, ossia una tensione condivisa verso quei valori fondanti di un “umanesimo sociale” che, oggi più di allora, sembra aver delegato ogni riserva di senso – e quindi anche del senso ultimo di dono, commercio e scambio – a protocolli e burocrazie.

Forse si potrebbe partire da qui per parlare della Società generosa(Vita/Feltrinelli, 254 pagine, 12 euro), di Pier Mario Vello e Martina Reolon. Un libro particolarmente ricco di spunti per il pensiero, prezioso per chi ha a cuore non tanto la natura teorica dello scambio e, quindi, della relazione, ma la sua valenza concreta e, di conseguenza, la (possibile?) convivenza tra un’economia generativa di dono e un’economia tout court, purché non dissipativa. Gli autori, che si sono rivelati dei veri maratoneti del dibattito (decine le presentazioni, l’ultima ieri sera a Milano), partono proprio dal tentativo di “ripensare il dono”, anche in chiave storico-concettuale. Il dono è qui assunto come il rapporto sociale par excellence.  

Ripensare il dono come “rapporto sociale” prevalente ha delle implicazioni non da poco, sul nostro modo di considerare intuitivamente ciò chiamiamo “soggettività”, “intersoggettività”, “libertà”, “scambio”, ma anche “comunità”, “finanza”, “vita”, “denaro”. La forza del libro di Vello e Reolon risiede proprio nel non sottrarsi all’impatto, rischioso, con termini che informano (e spesso deformano) la pratica quotidiana dello stare nelle relazioni. Ma questo “mettersi in gioco” risiede, per gli autori, la natura stessa del dono e del fondamento di quella “società generosa” da tutti auspicata.

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Scrivono gli autori: “Il dono rappresenta l’esperienza del soggetto che mette in gioco il proprio sistema identitario, anche con il rischio di perderlo o, più probabilmente, di vederlo trasformato. Innanzitutto, perché donando cambio i miei orizzonti, instauro altri rapporti, includo o escludo qualcuno dal mio mondo, che si tratti di una persona con cui ho un contatto diretto e puntuale oppure no”.  Al fondamento del dono, per quanto possa apparire paradossale visto che il dono si basa su un’asimmetria fra chi dona e chi riceve, c’è però una tensione di uguaglianza. La crisi iniziata nel 2008, ha messo radicalmente in scacco questa tensione:  “Stato, mercato e filantropia hanno mancato di imboccare la strada dell’uguaglianza, in alcuni casi a causa di strategie rivelatesi errate, in altri a causa di insufficienza negli sforzi o contraddittorietà nelle azioni”. Stato, mercato e filantropia sono caduti nella rete di tre paradossi, che Vello e Reolon chiamano: 1) il paradosso dell’incompletezza; 2) il paradosso della generosità viziata; 2) il paradosso di un benessere locale spacciato per universale.

Il primo paradosso ha spinto Stato, mercato e filantropia a ad agire “in maniera distonica tra loro e senza una visione comune di etica sociale o un progetto comune di società desiderabile, senza rendersi conto che nessuno di loro, preso singolarmente, può nemmeno lontanamente contribuire a risolvere i problemi sociali fatti emergere dalla crisi”. Il secondo, quello della “generosità viziata” pone un problema all’ordine del giorno: “la filantropia si trova entro questo circolo vizioso, in quanto essa si mantiene ricavando il denaro dal settore dell’economia e della finanza, che sono in gran parte responsabili della stessa crisi che causa inuguaglianza e problemi sociali”. Il terzo, infine, ci ricorda come Stato, mercato e filantropia sono sì in grado di risolvere i gravi problemi sociali dovuti all’inuguaglianza strutturale, ma solo se assumono un punto di vista universale. 

In realtà “Stato e mercato sono costituzionalmente locali, in quanto l’uno agisce entro un campo ristretto dalla cittadinanza e da precisi confini, e l’altro è per natura orientato a trarre profitto solo per un numero ristretto di persone che appartengono al proprio ambito. Stato e mercato sono propensi a orientarsi verso convenienze e utilità locali. La filantropia intercetta invece alcuni problemi sociali che hanno dimensioni spesso planetarie e universali. Ma, tuttavia, soffre d’impotenza, in quanto le sue dimensioni sono insufficienti anche solo a tentare di sanare a livello globale i problemi di cui si occupa”. La conseguenza è una filantropia confinata a un ruolo marginale e sussidiario, “mentre il mercato si culla nell’illusione di poter raggiungere una dimensione universale grazie alla trionfale quanto falsa idea di trickle-down economy, cioè di un’economia che a forza di arricchire i più ricchi del pianeta alla fine, prima o poi, farà arricchire anche i più poveri”.

Come uscire da questa triplice impasse? La risposta di Vello e Reolon non è tecnica, e non si risolve in una “ricetta” pronta per l’uso. Indica invece i presupposti culturali che rendano possibile una scelta tecnica eticamente orientata. Il rischio di ogni ricetta, come si diceva nella storiella richiamata in apertura, rischia di essere una nuova svendita di quel sapere sociale, “generoso”, comune che molti vorrebbero ridotto a “bene locale”.

Per trovare una via d’uscita, prima, concludono gli autori, si deve procedere alla  “messa in discussione radicale di tutti i paradigmi e i dogmi che l’ultima parte del secolo scorso ha costruito, a cominciare da politiche redistributive inefficaci e inefficienti, che non hanno attenuato le disuguaglianze ma le hanno incrementate. Così come va ridiscusso il ruolo di una filantropia e di un terzo settore mossi da alti ideali ma confinati localmente e dimensionalmente a livello di sussidiari, dipendenti dalle stesse politiche redistributive pubbliche che in parte hanno contribuito a incrementare le disuguaglianze presenti. Non se ne può uscire se non attraverso una svolta critica, di natura etica, culturale, politica in senso lato, educativa". Custodendo ciò che va custodito e donando ciò che va donato. 

@oilfobook


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