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«Se affondano i poveri, affondiamo tutti». La crisi del welfare vista dalla Finlandia

Si stima che, dagli anni ’90, la povertà in Finlandia sia raddoppiata. Sono circa 800mila, oggi, le persone che chiedono aiuto, in quello che i media italiani dipingono come il paese del “welfare perfetto”. Ma che qualcosa, non solo i conti, non tornino ce lo conferma il sociologo Juri Saari che ha studiato le "code della povertà", davanti ai centri di distrubuzione del pane

di Marco Dotti

Ogni settimana, circa 20.000 finlandesi su una popolazione di 5 milioni di abitanti si mettono in fila. Attendono pazienti il loro turno e poi, quando arriva, ritirano il pane. Esistono molti modi per definire la povertà. Tra i più comuni c’è sicuramente quello che, prendendo in considerazione il reddito medio annuo di un cittadino, considera povera  una famiglia di due persone con un consumo medio inferiore a quello pro-capite nazionale. Si parla allora di povertà relativa. Ma c’è un altro modo, oltre i numeri e le medie, per capire se quella povertà avanza: guardare le file per il pane.

Juho Saari, 46 anni, professore di sociologia all’Università di Kuopio, nella Finlandia orientale, fa proprio questo: guarda le file, le studia. E da lì trae le sue considerazioni. A fine anno uscirà una sua ricerca, condotta su 3.500 persone. Il fatto che Saari sia un ricercatore singolare – rispetto ai nostri parametri -, ancorché stimato, lo dicono non solo le sue numerose pubblicazioni sulla protezione sociale europea, ma anche i suoi studi sulla solitudine. Con il rapper Matti Huhta, Saari ha studiato come questa solitudine prenda forma nelle parole e nella musica popolare. È proprio qui, non nei numeri, che prendono voce il disagio e la vulnerabilità sociale. Ma anche i numeri, a guardar bene, qualcosa dicono.  

Si stima che,  dagli anni ’90, la povertà in Finlandia sia raddoppiata. Oggi sono circa 800.000 le persone che chiedono aiuto, in quello che i media italiani dipingono spesso come il paese del “welfare perfetto”. Eppure, questa “perfezione” è proprio ciò che rischia di far saltare tutto, spiega il professor Saari. Se parliamo di welfare solo in termini di tenuta economica, è chiaro che stiamo delegando agli economisti il ruolo-chiave nella ridefinizione del nostro futuro. Ne siamo consapevoli? Gli economisti e gli statistici che cosa fanno? Dividono. Dividono in categorie. Ma quando si comincia a compiere a una operazione di questo tipo si sta scomponendo la realtà, senza renderla meno complessa. In Finlandia, osserva Saari, ci sono molti aiuti, ma questi aiuti non funzionano come dovrebbero. Perché?

Una parte dei problemi – rimarca il professore – dipende proprio, e sorprendentemente, dal fatto che i servizi che sono troppo efficienti.  Ma troppo efficienti, secondo una logica economicista, significa anche troppo specializzati e troppo specializzati, alla lunga, significa poco economici. Quindi si pensa ai tagli. Ma tagli a parte è proprio la parcellizzazione a  nuocere alla qualità del servizio e persino alla sua efficacia.

Il professor Saari ne è convinto: “abbiamo troppi specialisti per affrontare i problemi di una sola persona. Una donna o un uomo hanno un problema? Li mandiamo prima dallo psicologo, poi dal terapeuta comportamentale, poi dal medico, infine dallo psichiatra o dal fisioterapista. E poi? Poi li rimandiamo a casa fino al prossimo appuntamento”. Ma nel mezzo, tra un appuntamento e l’altro, che cosa succede? Succede che quella persona vive, subisce, patisce la sua solitudine. E si mette in fila per il pane, scomparendo fino alla prossima settimana. Ed è qui che il welfare – anche quello ipersussidiato – fallisce. “Le professionalità nel servizio sociale dovrebbero essere a ampio spettro”, sostiene Saari. “Farsi carico di una visione, non solo di un servizio”.

Per questo la parola chiave del welfare deve essere  “andare insieme”, procedere di pari passo. I problemi di coloro che si trovano in situazioni difficili non possono essere risolti in un appuntamento di 45 minuti ogni tre settimane. Questo significa relegarli in uno spazio-tempo “altro” rispetto al nostro e, in definitiva, escluderli anziché sostenerli.

Per Saari il welfare è una nave. La chiglia della nave è stata costruita negli anni ’60, ma con il carico della crisi e con il trascorre degli anni il fondo ha cominciato a perdere. Ora che servirebbe un’adeguata manutenzione del sistema, ci accorgiamo che i nostri “cantieri sociali” sono inadatti, parcellizzati, in conflitto tra loro. Il rischio è che per salvare i conti della nave, molte persone finiscano fuori e vengano inghiottite dal mare.

La situazione è grave e anche qui in Finlandia i “becchini del welfare” – si esprime proprio così Saari – sono sempre all’opera, pronti a distruggerlo. Ma come si distrugge un sistema di welfare? Tagliando i fondi? No, conclude il professor Saari, un sistema di welfare si distrugge non per via economica, ma minando la fiducia. Il welfare muore se non ha una causa comune. Muore per la frammentazione del bene comune. È su questa idea di “bene comune” che dobbiamo tornare a lavorare.

@oilforbook


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