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Cooperazione & Relazioni internazionali

Gaza, non è la solita escalation

Il ruolo sempre più marginale degli Usa, le difficoltà dell'Egitto e l'assenza di una prospettiva di pace a breve termine. Andrea Avveduto, giornalista, esperto di Medio Oriente e scrittore, fa il punto su un conflitto che «non è la routine quasi quotidiana degli scontri tra Israele e Hamas»

di Redazione

Gaza non conosce pace. A un mese di distanza lo storico incontro tra Peres e Abu Mazen in Vaticano è solo un ricordo e la Striscia è tornata a infiammarsi.

Quarto giorno di scontri e la tregua, per ora, «non è sull’agenda» del primo ministro israeliano. I tank dello stato ebraico sono allineati sul confine, pronti a intervenire. Ventimila riservisti sono stati mobilitati, e fonti della sicurezza libanese riferiscono che oggi sono stati lanciati due razzi sul nord di Israele, anche se al momento non si conoscono gli autori. I raid continuano a colpire gli obiettivi di Hamas, mentre  da Gaza partono incessantemente i missili verso Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme.

Il bilancio dei morti – destinato a crescere – è salito a 100, tutti da parte palestinese. Gaza è stritolata, ma il movimento islamista – sempre più isolato dalla fratellanza araba – non è determinato a fermarsi. «Combatteremo per mesi», è la promessa fatta al nemico sionista. Quanto i palestinesi della Striscia possano resistere ai raid israeliani non lo sappiamo. Ma un’invasione di terra, che per Abu Mazen sarebbe “imminente”, rischia di far precipitare terribilmente la situazione, e riportare improvvisamente quel sottile lembo di terra al 2008, quando l’operazione piombo fuso causò la morte di seicento persone, circa. Uno scenario drammatico che ora non è da escludersi, ma – anzi – è sempre più probabile.

Obama, timidamente, ha dato la propria disponibilità per arrivare a una mediazione, anche se la Casa Bianca ha dimostrato chiaramente in questi anni il proprio disinteresse per la questione mediorientale, e la cui deludente politica estera non ha fatto altro che rafforzare il ruolo di Israele nella giustizia “fai da te”.

Non è la solita escalation, non siamo davanti alla routine quasi quotidiana degli scontri tra Israele e Hamas. E tuttavia è troppo presto per dire se si tratta o meno della resa dei conti. Prima o poi avverrà, a prescindere da qualunque tregua precaria possano arrivare a firmare questa volta. Ma che si tratti di un accordo immediato è assai improbabile.

Soprattutto a causa dell’altro grande paese che ebbe un ruolo fondamentale un anno e mezzo fa, quando venne lanciata l’operazione “Colonna di nuvole”: l’Egitto. Il compito che si vorrebbe affidare nuovamente al governo di Abdel Fattah al-Sisi, tra Hamas e Israele, è difficile. La presidenza egiziana ha annunciato ieri che il Cairo «sta facendo sforzi diplomatici per una fine dell'escalation», anche se il ruolo da giocare assomiglia più a quello di un equilibrista che di un diplomatico. A marzo l’Egitto aveva dichiarato Hamas “fuorilegge”, e i rapporti non buoni che da qualche tempo intercorrono tra i due non fanno ben sperare. Non va dimenticato poi che il tribunale del Cairo a suo tempo aveva bloccato e reso illegali tutte le attività di Hamas sul territorio nazionale, per la campagna contro il terrorismo. E tirando le fila, a nessuno è chiaro perché dovrebbe tornare a fare da paciere tra due suoi nemici. Eppure a breve potrebbe essere costretto a intervenire in modo deciso, se non altro per scongiurare un allargamento del conflitto nel Sinai. E poi perché c’è il rischio che Turchia e Qatar vogliano prendere il posto dell’Egitto nel suo ruolo da mediatore che ha sempre avuto in questi casi. E per come si sta evolvendo la situazione in un Medio Oriente lacerato dalle guerre, non sarebbe una buona notizia. Neppure e soprattutto per Israele.


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