Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Economia & Impresa sociale 

Piketty: «Solo la democrazia può salvare l’Europa»

La due giorni italiana dell'economista studioso di diseguaglianze. Lo abbiamo intervistato: “Di parole sugli Stati Uniti d’Europa ne abbiamo sentite abbastanza. Ora serve qualcosa di più delle parole”

di Francesco Cancellato e Marcello Esposito

Prima in Bocconi, poi a Montecitorio, infine in televisione, da Michele Santoro. È stata una due giorni italiana intensa, quella di Thomas Piketty. Quarantatré anni, parigino, Piketty è un’economista che qualche mese fa ha scritto un poderoso saggio – 950 pagine nell’edizione italiana – intitolato «Il capitale nel XXI secolo», che ha venduto 500mila copie nei soli Stati Uniti e che si annuncia come best seller pure in Italia.

Il motivo? Il passaparola, certo. Soprattutto, però, l’intuizione che la questione chiave di questo scorcio di ventunesimo secolo sia quella dell’uguaglianza. O meglio, della lotta a una distribuzione troppo ineguale della ricchezza. Siamo riusciti a intercettare Piketty – al telefono, per gentile intercessione di Bompiani, sua casa editrice italiana, che ringraziamo.

Monsieur Piketty, partiamo dall’Italia. Due anni fa, l’attuale Primo Ministro Matteo Renzi, allora Sindaco di Firenze, disse che le tre parole chiave per una sinistra moderna erano «Futuro, merito ed Europa». Quale cambierebbe delle tre? E quale parola sceglierebbe, al suo posto?

Più delle parole, è importante quel che c’è alle loro spalle. Oggi dietro la parola Europa c’è un’istituzione che non funziona. Il sistema di negoziazione tra i paesi, il ruolo della commissione: non funziona nulla, è un sistema sbagliato. Dovessi rispondere sulla base di quel che è ora, sostituirei Europa con Democrazia, quindi. Con questo non vuol dire che non credo all’Europa: credo a un’Europa con istituzioni democraticamente elette e rappresentative, a un’Europa in grado di decidere. Di parole sugli Stati Uniti d’Europa ne abbiamo sentite abbastanza. Ora serve qualcosa di più delle parole.

La sua analisi si concentra molto sugli Stati Uniti d’America. Anche l’Europa è malata di disuguaglianza?

L’ineguaglianza sta crescendo molto più negli Stati Uniti che in Europa. In America l’1% della popolazione detiene il 22% della ricchezza totale del Paese, la percentuale più alta dal 1928 ad oggi. Dagli anni ’80 ad oggi, il 70% di tutta la ricchezza prodotta è finita nelle mani del 10% della popolazione. L’Europa ha altri problemi, oggi: quello di creare posti di lavoro, quello di ridare un senso alle proprie istituzioni. Tuttavia, non credo debba sottovalutare il problema dell’ineguaglianza. Anche perché è parte in causa dei suoi guai…

In che senso?

Ad esempio, la competizione tra stati, in Europa, ha portato a un’enorme diminuzione della tassazione delle grandi multinazionali. Negli Stati Uniti le tasse sulle corporation sono più o meno al 35%, mentre in Europa, stiamo convergendo più o meno tutti verso un’aliquota del 20%, con alcuni paesi che già sono scesi al 15%. È paradossale, anche perché le tasse che pagano gli individui e le piccole imprese in Europa sono molto più alte di quelle americane. L’assioma è semplice: se permettiamo alle multinazionali di pagare tasse così basse, siamo costretti a sovra tassare il lavoro e i consumi. E questo non fa bene né alla crescita economica né all’occupazione.

In Italia c’è stata grande polemica attorno alla cosiddetta Google Tax, un proposta del Governo Letta per costringere i grandi colossi del web Google, per l’appunto, ma anche come Facebook o Amazon, a pagare più tasse in Italia. La proposta è poi stata ritirata per diversi motivi, tra cui quello di chi diceva fosse una tassa contro l’innovazione. Lei che ne pensa?

Penso che oltre a un problema di tasse, questo sia soprattutto un problema di regolazione del mercato. Le leggi anti-trust dovrebbero essere rese più stringenti. Se un’azienda come Google ha il monopolio o quasi delle ricerche su internet, perché non dovrebbe essere soggetta a regolazione pubblica? L’Europa, su questi temi, è molto ingenua. Non solo con i giganti americani, peraltro.

Cosa intende?

Anche le multinazionali europee  – anzi, forse ancora di più loro – sono talmente grandi e radicate nei loro paesi da poter imporre ai governi nazionali qualunque loro volere. Il problema è sempre lo stesso: se questo accade in Europa più che in America è perché non c’è un potere politico a misura di quelle multinazionali. Finché la politica non riuscirà a negoziare alla pari con le grandi corporation, a tassarle quanto è giusto tassarle, è difficile che l’Europa possa tornare a crescere.

C’è un modo per invertire la rotta?

Ci vorrebbe una politica fiscale unica europea. Oggi ci sono ventotto legislazioni fiscali diverse e le multinazionali hanno un potere negoziale enorme: se un paese alza loro la pressione fiscale o non dà loro quel che chiedono, se ne vanno altrove. Se questo gioco al ribasso continua, finiremo col perderci tutti.

Uno dei suoi cavalli di battaglia è la tassa annuale sulla ricchezza, sul patrimonio di ciascuno. In Italia sono anni che si parla di un’imposta patrimoniale. Pensa davvero sia necessaria?

Credo sia molto importante. Per essere equa, una tassa sulla ricchezza dev’essere progressiva: l’unico modo per far crescere la mobilità della ricchezza è quello di colpire in modo selettivo i il patrimonio: aliquote alte per quelli grandi, basse per quelli piccoli. Altrimenti si crea ulteriore disuguaglianza.

Lei propone anche una tassa sui grandi patrimoni ereditari. Da noi la politica, negli ultimi anni, è andata in senso opposto, riducendo le imposte di successione…

L’Italia, in questo senso, è una singolare eccezione. In Germania, in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, le tasse sui grandi patrimoni ereditari sono attorno al 40%. In Italia, con Berlusconi, erano scese allo 0% e ora sono attorno al 5%. Credo che l’Italia si debba porre il problema di una tassazione progressiva sulle eredità, che le mantenga basse per quelle piccole e che le faccia crescere man mano che aumentano gli importi.

Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo la lotta di classe era quella tra capitale e lavoro. Oggi i giovani si ritrovano ad avere scuole peggiori, lavori più precari, pensioni più basse rispetto a quelle dei loro genitori, a loro volta restii a cedere i loro diritti precedentemente acquisiti. Crede che sia alle porte un conflitto tra generazioni?

Il tema della disuguaglianza tra gruppi sociali è più variegato e vasto di quanto siamo soliti immaginarlo. Che stia emergendo un conflitto tra generazioni può essere vero, ma dire che esso stia sostituendo il conflitto tra capitale e lavoro è sbagliato. Piuttosto, mi pare si stia tornando a una più vasta dialettica tra patrimonio e reddito, tra chi possiede e chi produce. Questo grande conflitto, in qualche modo, contiene tutti gli altri: dalle lotte per un equo salario, a quelle per una migliore educazione per tutti, a quelle per un’equa tassazione della ricchezza. Di certo, il conflitto tra capitale e lavoro non appartiene al passato.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA