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Geografie dell’abitare. Quando i migranti mappano la città: Milano

Lo sguardo di chi è lasciato - o forse solo considerato - ai margini della città ci interroga, mettendo in positiva discussione le forme del "nostro" abitare. Una giovane urbanista, Nausicaa Pezzoni, ha interrogato e si è lasciata interrogare da quello sguardo che ridefinisce le forme dell'abitare, oggi, in un grande città: Milano.

di Nausicaa Pezzoni

La riflessione che propongo prende spunto dal libro pubblicato recentemente La città sradicata. Geografie dell’abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano (O barra O Edizioni, 2013) che racconta un'indagine e un esperimento sul ruolo dello spazio nel fenomeno migratorio.

Si tratta di un'indagine sulle diverse forme dell'abitare, oggi, in una grande città come Milano – e come potrebbe essere qualsiasi altra città meta di immigrazione – e sulle forme dell'abitare di popolazioni che non sono radicate nella città e che dal punto di vista del progetto urbanistico fanno emergere l’inattualità di un sistema di welfare fondato su un progetto di stabilità dell’abitare.

Queste popolazioni si inseriscono in alcuni spazi urbani ridisegnandone il senso e le funzioni e rinnovandone l’immagine anche per gli abitanti stanziali: i casi del parcheggio di Cascina Gobba, un luogo marginale, dimenticato dai milanesi e rigenerato attraverso le attività di un mercato settimanale delle popolazioni dell'est, o della piazza davanti al teatro Ciak trasformata in moschea all'aperto per la festa di fine Ramadan, sono esempi di spazi che contengono in un certo senso il disegno al futuro della città e che possono rappresentare la premessa alla costruzione di un nuovo spazio pubblico.

La mappa disegnata da Abdelhadi, Marocco

Nella mia ricerca ho cercato di scoprire questi luoghi, di capire i significati che i nuovi abitanti vi attribuiscono, e l'ho fatto attraverso un esperimento – che è un esperimento di inclusione: attraverso il disegno di 100 mappe di Milano da parte di altrettanti migranti al primo approdo, cerca di coinvolgere nel disegno della città quei soggetti che abitanti ancora non sono, sia perché non hanno ancora completamente acquisito la consapevolezza di far parte della nuova città, sia perché non hanno ancora conquistato il riconoscimento di abitanti ‘veri e propri’ da parte della comunità già presente. 

Esito di questo esperimento sono 100 mappe di Milano realizzate sulla base di un'intervista che deriva da una trasposizione del metodo di Kevin Lynch: a ciascun migrante è stato chiesto di rappresentare i luoghi più significativi della relazione iniziale con la città, e in particolare di disegnare i riferimenti usati per orientarsi, i luoghi abitati fin dall’arrivo a Milano, i percorsi più frequenti, i nodi, cioè i luoghi di aggregazione, quelli in cui si svolgono le attività collettive nello spazio pubblico, e i confini, che sono i luoghi inaccessibili, le mura immaginarie della città.

La mappa disegnata da Omar, Tunisia

Quella che emerge dalle mappe è una città che include, che attrae, che divide, che mette in relazione o che si fa temere, a seconda dei significati di cui si caricano i suoi spazi nell'osservazione di chi si dispone ad abitarli.

Una città che si fa conoscere simultaneamente dai nuovi abitanti attraverso il gesto di appropriazione conoscitiva dello spazio urbano messo in atto col disegno, e dall’osservatore esperto che scopre nel disegno del migrante la geografia complessa del primo approdo, che gli strumenti di rappresentazione codificati dall'urbanistica non riescono a intercettare.

Un esito operativo del lavoro è la mappa del primo approdo, uno strumento d’uso quotidiano pensato per i migranti e per gli operatori dei servizi, in cui sono mappati con un linguaggio comprensibile a tutti gli stranieri le funzioni di accesso alla città.

A fondamento di questo lavoro è la necessità di colmare un vuoto nel campo della progettazione urbanistica, studiando una dimensione che non viene trattata, pur essendo sempre più urgente: quella della transitorietà dell'abitare, che non può essere ignorata se si vuole fare spazio a una città di tutti.

L'ipotesi perseguita è quella di studiare la transitorietà dall’interno di questa condizione, attraverso un paradosso, cioè chiedendo proprio a coloro che scardinano il modello urbanistico perché rompono gli schemi dell’abitare stanziale, di fornire le tracce di quello che può forse diventare un nuovo sistema di interpretazione e di progetto dello spazio urbano.

La mappa disegnata da Mambo, Angola

Nella mappa tecnica, il migrante non trova i suoi spazi: i suoi riferimenti, la sua esperienza della città non sono rappresentati, e dunque io chiedo a lui, estraneo alla città, ed estraneo al mio sistema di rappresentazione della città, di disegnarli, a suo modo, e di far affiorare dal foglio bianco quella che è la sua città.

La mappa disegnata da Kairucca, Afghanistan

In questo disegnarli si innesca un processo di apprendimento e di appropriazione della città: nel momento in cui il migrante si rende conto di avere dei luoghi da disegnare, il territorio estraneo – spaesante – diventa familiare, si fa pensabile, svelandosi attraverso gli oggetti urbani riconosciuti e raffigurati sulla mappa. Dove immaginare e rappresentare la geografia urbana corrisponde al tentativo di abitare mentalmente la città, quindi di potersi pensare come abitante.

La città può dunque essere pensata come sradicata anche perché per diventare abitabile da tutti si deve sradicare dallo sguardo consueto, deve prendere un’altra forma e un’altra immagine rispetto a quella che gli abitanti stanziali sono abituati a vedere. E poiché gli abitanti transitori sono coloro che trasformano e sempre più trasformeranno le città, possiamo scorgere in queste immagini i tratti della città che verrà.

 

[Rielaborazione dell'ntervento tenuto per "No Borders. Architettura senza frontiere", Biennale di Venezia, 19 settembre 2014]


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