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La Riforma dell’impresa sociale al varco: opportunità e rischi

Pubblichiamo in anteprima un ampio stralcio dell’editoriale del prossimo numero di Impresa sociale dedicato alla Legge delega di Riforma del Terzo settore

di Redazione

In questi giorni la Commissione Affari Sociali della Camera sta esaminando la proposta del Governo per la riforma del Terzo Settore che, all’art.4 contiene anche le linee guida per la revisione della legge sull’impresa sociale. Alla necessità di questa riforma e ai suoi auspicabili contenuti Iris Network ha dedicato in questi anni tempo e riflessione, soprattutto nel 2013 quando, nel corso del Workshop di Riva del Garda, un gruppo di lavoro organizzato insieme a Vita ha individuato le ragioni che ostacolano il funzionamento della legge formulando alcune proposte di modifica. Queste sono state recepite e tradotte in proposta di legge dall’On Bobba e dal Sen. Lepri che, dopo un ulteriore incontro con i principali soggetti interessati, l’hanno depositata sia alla Camera che al Senato. I contenuti di quella proposta sono poi stati quasi integralmente ripresi nelle Linee Guida per la riforma del Terzo Settore che hanno aperto, nel maggio di quest’anno, la relativa consultazione dalla quale è emerso un sostanziale accordo su quasi tutte le modifiche proposte, tranne che su quella riguardante l’ammissione di una parziale distribuibilità degli utili. Sul punto i commenti si sono divisi tra chi concordava con quanto previsto nella proposta Bobba-Lepri di consentire una distribuzione limitata degli utili correnti mantenendo il vincolo totale sul patrimonio, chi chiedeva di mantenere il vincolo totale e chi chiedeva un deciso ampliamento della possibilità di distribuzione degli utili, eliminando anche l’indivisibilità perpetua del patrimonio, come condizione per attrarre i capitali necessari per lo sviluppo e la sostenibilità dell’impresa sociale. Quest’ultima posizione era minoritaria e, a nostro avviso, contraria alla tradizione italiana ed europea. Invece, nel testo presentato in Parlamento il Governo sembra averla recepita. Questa sensazione deriva da due passaggi dell’art. 4 della proposta di legge delega.

 

  1. Il primo è quello in cui il Governo di fatto sembra voler modificare la definizione di impresa sociale cosi come formulata dal d. lgs. 115 del 2006 (e prima dalla legge delega 118 del 2005). Si propone infatti di qualificare le imprese sociali non più come “organizzazioni private senza scopo di lucro” ma come soggetti “aventi come obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili” un elemento definitorio, quest’ultimo, ripreso non dalla Social Business Initiative, ma dall’assai meno generale regolamento del fondo EaSI. Secondo questa impostazione – a meno che il Governo non dia per scontato il recepimento della non finalità lucrativa già previsto dalla legge in vigore – sembrerebbe che sia la misurabilità dell’impatto a identificare la natura sociale dell’impresa e non le caratteristiche soggettive della stessa, in particolare non quel vincolo alla distribuzione di utili che costituisce secondo una ormai trentennale esperienza e una mole di letteratura scientifica una delle caratteristiche principali che differenziano le imprese sociali da quelle tradizionali.
  2. Il secondo passaggio, in coerenza con il punto precedente, modifica il comma relativo ai limiti alla distribuzione di utili. Mentre nelle Linee Guida si prevedeva di consentire "forme limitate di remunerazione del capitale sociale", e nella proposta Bobba-Lepri si precisavano esattamente questi limiti, nel testo approvato dal Governo si parla genericamente di “forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione di utili nel rispetto di condizioni e limiti prefissati”, lasciando al legislatore delegato spazi di manovra. Può darsi che il Governo non intenda utilizzarli, ma allora perché inserire una formulazione così generica?

Due sono le riflessioni che, a fronte di queste modifiche riteniamo necessarie: la prima riguarda la loro coerenza con le normativa europea in materia di impresa sociale e con altre norme contenute nello stesso provvedimento; la seconda, di carattere più generale e sostanziale, è relativa al posizionamento dell’impresa sociale rispetto ad approcci “concorrenti” alla socialità d’impresa.

Innanzitutto le modifiche proposte rischiano di produrre, ancorché in una legge delega, una definizione di impresa sociale non coerente con quella europea. Da una lettura dei documenti comunitari risulta chiaro che secondo la Commissione Europea l’impresa sociale, indipendentemente dalla forma giuridica adottata, deve avere natura non speculativa e quindi prevedere limiti stringenti alla distribuzione di utili. Poiché a prevalere deve essere sempre l’obiettivo sociale e alla sua realizzazione devono essere “primariamente indirizzati i profitti”, l’impresa sociale deve sottostare a “regole e procedure predefinite riguardanti ogni possibile modalità di distribuzione di utili in modo da assicurare che essa non vada a danno dell’obiettivo primario”. Occorrerà quindi valutare con attenzione quanto si potranno effettivamente “sciogliere le briglie” del vincolo non profit.

Esiste poi un secondo ordine di riflessioni che ci pare ancor più rilevante. Il riconoscimento di una natura anche solo moderatamente speculativa dell’impresa sociale (che beninteso è cosa diversa dal poter remunerare in modo accettabile tutti i fattori produttivi, incluso il fattore capitale) contribuisce a sfocare il confine tra imprese sociali e imprese convenzionali e mette in discussione l’orientamento secondo cui l’impresa può essere creata e gestita non solo da detentori di mezzi finanziari, ma anche da donne e uomini che insieme si propongono di risolvere un problema loro o della comunità in cui vivono.

Concludendo, la nuova normazione sull’impresa sociale italiana rappresenta una grande opportunità per consolidare le esperienze esistenti, per sostenere nuove iniziative e, non ultimo, per rilanciare la leadership italiana a livello internazionale in questo ambito. L’entità della sfida riformatrice richiede di agire in due direzioni. In primo luogo è necessario evidenziare le possibili ricadute della norma, senza ritrarsi di fronte a criticità e rischi derivanti dal ponderare i diversi interessi in campo. In secondo luogo, dopo aver individuato obiettivi e linee guida generali, si tratta di avviare un processo di “fine tuning” per calibrare nella giusta misura i diversi elementi che qualificano questo rinnovato modello d’impresa. La ricerca, da questo punto di vista, può svolgere un ruolo importante non solo per la generazione di contenuti che alimentano il processo di policy making, ma anche per la sua natura di sistema aperto al confronto tra posizioni diverse, ben argomentate sul fronte empirico e teorico concettuale.  

 


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