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Riusare in Italia si può

Giovanni Campagnoli, docente di economia dai Salesiani, bocconiano ed esperto di Politiche giovanili, racconta nel suo ultimo libro dell'Italia delle buone pratiche e del riutilizzo degli spazi abbandonati

di Lorenzo Alvaro

Si chiama “Riusiamo l'Italia”, edito da Gruppo24Ore ed è l'ultima fatica di Giovanni Campagnoli. Il docente di economia, bocconiano, si occupa di ricerca come direttore e blogger della Rete informativa Politichegiovanili.it e opera come consulente e formatore per enti Pubblici e onp. Il suo è un racconto del viaggio che ha intrapreso in Italia alla ricerca di buone pratiche di riuso degli spazi che lo ha portato ad incontrare un mondo di strat up culturali e sociali che combattono quotidianamente la disoccupazione giovanile.

Giovanni Campagnoli

Come nasce l'idea di questo libro?
Il libro nasce perché è dal 1992 che mi occupo di politiche giovanili. E vedendo quello che sta accadendo, con un livello di disoccupazione altissimo, e con tantissimi giovani che cercano di inventarsi nuove strade mettendosi in gioco in modi nuovi, ho voluto andarne a misurare gli effetti. A questo si aggiunge il dato che in Italia ci sono 2 milioni di spazi non abitativi vuoti. Ed ecco che il link tra mondo lavorativo giovanile ed edilizia abbandonata è venuto naturale. I giovani vedono questo patrimonio abbandonato come una risorsa, pensando a come riviverlo e riutilizzarlo. Dalla palestra al co-working fino alla musica live sono migliaia le realtà che nascono ogni giorno. I posti che fino a ieri si faceva finta di non vedere oggi sono al centro dell'attenzione. Non è più il tempo dell'edificazione senza scrupoli. È il momento del recupero di quello che c'è. Ho voluto raccontare questi ragazzi che stanno pian piano cambiando le città italiane.

Il primo paragrafo titola: “Da spazi vuoti a luoghi di nuove opportunità”. Che differenza c'è tra uno spazio e un luogo?
Gli spazi vuoti sono superfici, metri quadri o volumetrie lasciate lì. Sono edifici anonimi. Un luogo è un posto che vive, abitato e con uno scopo. Non più spazi neutri ma realtà con un'identità.  

Nel libro parla delle start up. C'è chi le ha criticate parlando di una moda passeggera e dai dubbi risultati. Lei che ne pensa?
In Italia abbiamo il terrore che un azienda fallisca. Addirittura se un imprenditore fallisce non può più votare. Nessuno, come invece succede all'Estero, considera quel fallimento come esperienza. Secondo me le start up sono un ottimo modo che hanno i giovani per acquisire competenze e imparare a lavorare. È chiaro che si tratta di strumenti. Come ogni strumento la sua utilità dipende dall'uso che se ne fa. È chiaro che non è possibile riproporre il modello della Silicon Valley. Però è certamente una strada utile per chi è giovane e vuole misurarsi con il mercato e con il mondo dell'impresa.
 

 
La copertina del libro 

Meglio una start up che la disoccupazione insomma…
Non solo. Ci sono alcuni settori economici molto in crisi. Penso ad esempio alla cultura. È un settore nel quale esistono un sacco di realtà interessanti. Il mercato indipendente, nel campo dell'arte e della cultura, è florido e interessante. Andrebbe coltivato e aiutato. Ecco un caso in cui le start up funzionano.

Nel senso che diventano realtà imprenditoriali vere e proprie?
Non necessariamente. Ma non è importante. I giovani prendono spazi pensando a progetti con un ciclo di vita. Non esiste più il per sempre. Ma questa modalità permette costi molto bassi e un punto di pareggio altrettanto abbordabile. Realtà in cui chi lavora riesce a generarsi uno stipendio di 1000 – 1200 euro al mese. Se a questo si aggiunge il volontariato culturale si comincia ad avere una decina di persone retribuite, che attivano le proprie reti, e arrivano a generare fatturati da 150 mila euro. Vuol dire generare ricchezza per tutti.

Lei sostiene anche che investire soldi pubblici in queste realtà genera nuove risorse, come?
Se un Comune stanzia in queste esperienze dei soldi quel denaro non è a perdere ma si moltiplica. Ad Arona ad esempio un'associazione culturale ha preso un finanziamento di 10mila euro. Il responsabile ha convinto Dacia Maraini a presentare l'evento gratuitamente. Negli anni quei 10 mila euro si sono moltiplicati 25-30 volte.

Quindi anche un'associazione rientra nel suo concetto di start up?
Certo, come l'impresa sociale. Che per altro sono le realtà che, nel mercato della cultura, funzionano meglio

Cosa manca per rendere il riuso una pratica su larga scala, un'alternativa possibile?
A me entusiasma sempre cercare e scoprire buone pratiche innovative. Ma devo dire che non basta più. Serve una policy che favorisca queste realtà. Basterebbero le Regioni. Oggi servono 11 diversi permessi per fare un concerto. È una cosa vergognosa. Ma è mai possibile che per legge ogni locale  debba avere i bagni per il personale distinti da quelli per il pubblico. Vuol dire 10 mila euro di lavori per mettersi a norma. Nel resto del mondo, da Londra a New York passando per Parigi, non è così. Se a livello locale ci fosse un impegno alla semplificazione e alla valorizzazione di queste micro realtà, sarebbe già un enorme passo avanti.


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