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Le carceri? La migliore scuola per il fanatismo islamico

Intervista a Jean- Marc Mahy, ex detenuto, per 19 anni, e ora educatore, sull’emergenza terrorismo in Belgio, e su quanto il carcere sia una buona soluzione per i giovani jihadisti provenienti dalla Siria

di Cristina Barbetta e Sophie Blais

L’emergenza terrorismo in Belgio, con la scoperta della cellula jihadista a Verviers, pone il problema della presenza nelle carceri belghe dei giovani terroristi che tornano dalla Siria. Lo spiega a Vita Jean- Marc Mahy. Ex detenuto, ha passato 19 anni in carcere, di cui 3 in isolamento. Da quando è stato rilasciato, nel 2003, all’età di 36 anni, si occupa di aiutare i giovani a non cadere nella spirale della delinquenza, e a provare che reinserirsi all’interno della società è possibile. È educatore presso le IPPJ, gli istituiti pubblici di protezione della gioventù. E attore. Nello spettacolo “Un homme debout” (“Un uomo in piedi”), che ha avuto un grande successo anche all’estero, parla della sua esperienza carceraria. Ecco l’intervista.

Cosa pensa della radicalizzazione dei terroristi nelle prigioni?
Non è un fatto nuovo. Vi ho assistito personalmente a partire dagli anni ‘90, quando nella prigione di Liegi c’era un predicatore che faceva proselitismo e obbligava tutti i musulmani a pregare. Il problema di questi terroristi, dei jihadisti, è che non sono inseriti nella società. Vengono mandati in galera, ne escono dopo un anno e poi ritornano all’interno della società. Questo non ha senso. Per le esperienze che hanno avuto sono delle persone molto violente che pongono un problema alla società. Queste persone si radicalizzano in prigione, dove gli estremisti inculcano loro l’odio nei confronti dell’occidente. Come è accaduto a Amedy Coulibaly. Nel 2008 è uscito un documentario diffuso su France 2, nella trasmissione Envoyé Spécial: “Prison de Fleury-Merogis – Les images interdites”. E’ un film girato per 6 mesi con videocamera nascosta da 5 detenuti ed ex detenuti della prigione di Fleury Merogis, che denuncia le orribili condizioni delle carceri francesi. Tra loro c’era anche Amedy Coulibaly. Coulibaly quindi si radicalizza in carcere e sviluppa un sentimento di odio nei confronti della società.

Ritiene quindi che il carcere non sia una buona soluzione per gli jihadisti che tornano dalla Siria?
Penso che quando qualcuno ha commesso un reato debba essere punito in base alla legge. Però nella società occidentale si pensa che la punizione debba essere la prigione. Invece le prigioni sono luoghi di esclusione: “luoghi di stoccaggio”, dove la gente viene parcheggiata , e non ne esce migliore di prima. È necessario un nuovo percorso di giustizia che sia in grado di comprendere la storia personale di ciascun individuo. Una volta uscite dal carcere, bisogna preparare queste persone ad un nuovo inserimento perché la maggior parte della gente che è in prigione non è inserita nella società.

Qual è la sua opinione sull’enorme campagna che si è diffusa in Francia in favore della libertà di espressione in seguito all’attentato al settimanale Charlie Hebdo e alle violenze che sono seguite?
Oggi tutti sono Charlie. 3 milioni 700 mila persone hanno manifestato a Parigi e vogliono tutti essere Charlie. Io invece non sono Charlie. Ma in cosa consiste la libertà di espressione? Che se io voglio esprimermi contro qualcuno uso il disegno come strumento di derisione? Dove stiamo andando? Che valori inculchiamo ai giovani che saranno la nuova generazione di domani? Faccio fatica a comprenderlo. C’è una banalizzazione della violenza e non c’è invece la costruzione di valori condivisi nella comunità e nella società intera, come la giustizia e la libertà. Io credo nella sensibilizzazione e nella prevenzione dei giovani. Il problema della società oggi è che i politici non sanno quello che succede sul campo perché non lavorano con la gente che sta sul campo. C’è un divario sempre più grande e radicale tra coloro che vivono nella società, tra coloro che vanno in galera, e che cercano di uscirne, e la gente che è al potere e che prende le decisioni. Io non sono Charlie e continuerò a lavorare sul campo coi giovani per costruire valori e credo che cambiare la gente che è stata in Siria e in Iraq sarà molto complicato.

Perché un detenuto è più propenso ad ascoltare discorsi radicali in prigione?
Per alcuni la prigione è la migliore università della manipolazione, per altri la migliore scuola delle criminalità . In Belgio la percentuale di coloro che hanno il diploma della scuola primaria nelle carceri è molto basso . Nelle prigioni gli analfabeti sono tra il 60 e il 70% . Quindi non è complicato convertire persone di questo tipo a delle idee estreme . Durante il mese del ramadan i musulmani sono obbligati ad osservarlo perché ci sono diverse comunità nelle prigioni, come quella degli italiani, degli albanesi e anche dei musulmani, e queste comunità impongono dei comportamenti. Dunque chi non osserva il ramadan è molto mal visto dagli altri. C’è però una grande differenza tra un musulmano che fa il ramadan in prigione e un islamista radicale che cerca di fare proseliti… La maggior parte della gente che arriva in prigione non pratica il ramadan. Sono persone che praticano in famiglia un islam moderato, così come i cattolici che vanno a messa la domenica. In prigione invece apprendono il fanatismo, l’estremismo.

Perché nove persone su dieci in prigione sono vittime di questo fanatismo?
Non basta dire che la colpa è della famiglia, della prigione, della comunità, della scuola. Quello che conta è il riconoscimento della responsabilità individuale.


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