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Radicalizzazione nelle carceri, quale risposta?

Francia e Italia cercano di affrontare il problema della radicalizzazione islamista senza legiferare sotto la spinta del populismo penale.

di Martino Pillitteri

Reclutamento di personale qualificato e realizzazione di cinque distretti/ aree dedicate  dove  raggruppare 167 detenuti di fede islamica di cui 60  ritenuti intensamente radicalizzati.
É il piano messo a punto del  ministero della Giustizia francese per affrontare il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri.

Ogni distretto accoglierà 20-25 detenuti; di loro si occuperanno 100 educatori e psicologi,74 nel 2015 e 26 nel 2016, e 60 nuovi imam, che si aggiungono agli attuali 181 sparsi tra le carceri di tutta la Francia. I musulmani costituiscono più della metà dei 68.000 detenuti del paese.

«Le prigioni favoriscono i processi di  radicalizzazione in quanto sono luoghi dove le persone  convivono in uno spazio ristretto e non hanno niente altro da fare che parlare gli uni agli altri» sostiene Francesco Ragazzi ricercatore e professore di scienze politiche  alla Leiden University.  «Ci sono dei musulmani che entrano in prigione come dei semplici praticanti ma poi diventano vittime dell'ambiente e finsicono per entrare nelle reti violente  o network legati alla jihad».

Farhad Khosrokhavar,sociologo presso la Scuola di Parigi di Studi Avanzati in Scienze Sociali  ed esperto dei fenomeni di radicalizzazione,  sostiene che i detenuti più pericolosi siano quelli che sanno camuffarsi.  «La maggior parte delle persone che si radicalizza in prigione non si fa crescere la barba e non partecipa alle alla preghiera collettiva del Venerdì . Quelli che lo fanno di solito sono i più innocui».

Anche in  Italia il tema della radicalizzazione nelle carceri non è sottovalutato. «Occorre contenere i rischi di radicalizzazione nelle carceri, tenendo presente che oltre un terzo dei detenuti proviene da paesi islamici» ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando intervenendo al convegno  “Stato islamico e minaccia jihadista: quale risposta?”, organizzato a Roma mercoledì 18 febbraio presso il Centro Alti studi per la difesa da Fondazione Icsa e Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. Le carceri, ha spiegato, «sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell'Islam, con capacità di proselitismo, ma bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l'effetto boomerang come Guantánamo».

Secondo il Guardasigilli «serve una riflessione sui percorsi di radicalizzazione che possono avvenire in carcere, ma bisogna stare attenti a legiferare sotto la spinta del populismo penale. Se si riduce l'area dei diritti c'è il rischio di favorire il proselitismo, agevolando la visione di un Occidente nemico dell'Islam». Il ministro ritiene che siano indispensabili strumenti di sostegno ai detenuti, spesso fragili sul piano culturale, familiare, economico e a rischio di finire vittime della propaganda jihadista.

Dati

Circa il 35% dei detenuti nelle carceri italiane proviene da Paesi di religione islamica, principalmente dal Maghreb, soprattutto da Marocco e Tunisia. Un carcere su quattro ha un locale adibito stabilmente alla preghiera. E' quanto emerge dallo studio 'Le Moschee negli istituti di pena' del ministero della Giustizia, pubblicato nel febbraio del 2014. Spaccio di droga e furto i reati più diffusi, oltre a reati minori, come falsificazione di documenti o resistenza a pubblico ufficiale.

Su un totale di 64.760 detenuti al 30 settembre 2013 (a fine anno si era scesi a circa 62.500 mila, ndr.), circa 23 mila erano gli stranieri e 13.500 gli originari di Paesi islamici. Fra i musulmani osservanti dietro le sbarre 102 hanno la cittadinanza italiana e nel 2013 sono stati segnalati 19 convertiti.

Dallo studio emerge che i musulmani osservanti sono poco meno di 9.000, e in 52 istituti sui 202 censiti possono riunirsi in preghiera in salette adibite a moschee. Nelle carceri dove le carenze strutturali non lo consentono, la preghiera avviene nelle celle o nei momenti di socialità e nei cortili interni. Le carceri – si premette nello studio, con riferimento al rischio di una diffusione del radicalismo religioso – sono un luogo dove "gli estremisti possono creare una rete, reclutando e radicalizzando nuovi membri attraverso una campagna di proselitismo, facilitata anche dalle difficili condizioni di sovraffollamento e dalla mancanza di risorse, vanificando così i tentativi di rieducazione e di reinserimento". Per questo per chi è accusato di terrorismo è prevista "la rigorosa separazione dalla restante popolazione detenuta", al fine di ridurre i rischi di proselitismo. "E' comunque doveroso ipotizzare che, anche nei circuiti comuni – prosegue l'analisi – vi possano essere detenuti integralisti di spessore", che possono trovarsi a contatto con "soggetti fragili, facilmente influenzabili".

Fra i musulmani osservanti vi sono attualmente 181 imam, figure guida per la preghiera e di riferimento spirituale. A loro si aggiungono nove imam esterni che offrono con regolarità assistenza religiosa ai detenuti, una quindicina di mediatori culturali e circa 60 volontari.

Foto: Getty Images


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