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Napoli, la fucina delle parole

La lingua è viva: ogni anno nuove parole ed espressioni ci raccontano le nuove generazioni. Il Dizionario etimologico storico napoletano le raccoglie tutte. «Una lingua che cambia è sintomo di buona salute. Quelle che non cambiano, sono quelle che non si usano più» dice il linguista Nicola De Blasi

di Anna Spena

La lingua è viva. Molto più viva di quanto non crediamo. Nascono nuove parole. E nascono non per moda ma per dinamiche dal basso. A saper intercettare e a saper ascoltare le sorprese sono infinite. E c’è chi con puntigliosità filologica lavora perché queste parole nuove e vive entrino anche nel dizionario. Nello specifico si tratta del Dizionario etimologico storico napoletano che Nicola De Blasi cura insieme ad altri linguisti parenopei.  Ed è proprio De Blasi, a raccontarci quali saranno la prossime espressioni che verranno inserite nel progetto del Dizionario: «Una lingua che cambia è sintomo buona salute. Quelle che non cambiano, sono quelle che non si usano più» dice.    

Come nasce l’idea del Dizionario etimologico storico napoletano?

Volevamo raccontare come cambia una città. Il dialetto napoletano è un oggetto di studio interessantissimo, è una lingua viva, sempre in cambiamento. Siamo fortunati perché abbiamo tantissimo materiale scritto a disposizione: letteratura, teatro, musica, abbiamo elementi a sufficienza per fare un paragone con i giorni attuali. Da circa otto anni le nostre ricerche sono diventate mirate: entro la fine del 2015 lanceremo un dizionario etimologico on line, sempre aggiornabile, poi speriamo anche di riuscire  a pubblicare un’edizione cartacea.

Come nascono le nuove parole e le nuove espressioni?

Ci sono parole che esistono già e a volte l’uso comune ne trasforma il significato. Poi arrivano sempre dei prestiti da altre parti d’Italia, dal mondo, o i suoni onomatopeici diventano spesso delle vere e proprie parole.

Quindi una considerazione storica è importante…

Fondamentale. Fino a 50 anni fa si pensava che la diffusione dell’italiano avrebbe portato alla scomparsa dei dialetti. Questa ipotesi si è dimostrata sbagliata. I dialetti sono ancora utilizzati.

Questa considerazione vale solo per il “caso napoletano”?

Assolutamente no. Anzi, a Napoli questa cosa si è percepita di meno. Perché qui in realtà non c’è mai stata una flessione nell’uso quotidiano del dialetto. Nelle altre regioni d’Italia invece se ne fa un uso più limitato. Però basta guardarsi attorno, fare una ricerca in internet, andare al cinema: i dialetti, tutti, sono presenti nei nuovi mezzi di comunicazione. Non c’è stato nessun declino e studiare i dialetti, non solo a Napoli ma ovunque, è uno degli strumenti più importanti che abbiamo per conoscere la storia di un luogo.

Tutte le parole si trasformano?

No, non tutte. Alcune restano. Le porto ad esempio alcune parole napoletane: “journat”, “semman”, “journ” queste parole sono rimaste immutate da secoli.  O ancora l’espressione “a pizz” sta ferma dal 300, anche se “a pummarol acopp” è arrivata dopo. Poi però ci sono le trasformazioni morfologiche che sono interessanti. Fino al 700 l’unico articolo utilizzato era “lo” esempio “lo can” oggi si usa dire “o can”. Il nostro vocabolario si è arricchito di tantissime espressioni moderne: “pariamm“ (ci divertiamo), “a posteggia” (mi ha fermata perchè mi voleva conoscere), “pezzottata” (finta) , “amm fatt o giall” (ci siamo spavenatai), "si na preta" (sei bellissima). La lingua è viva come noi.

Negli ultimi anni in tanti hanno parlato di “impoverimento della lingua”…

La lingua è una delle poche cose che non è soggetta ad impoverimento.  L’insieme delle realtà linguistiche oggi più che mai è ricco: aumentano le possibilità d’espressione, basta pensate agli stranieri che parlano italiano. Io credo che l’impoverimento sia soggettivo ma mai della lingua in sè.  Se capiamo che un sicilianismo di origine araba pronunciato da una siciliana possa essere stato ascoltato da un giovane toscano a Napoli, riusciamo insomma a convincerci che la realtà linguistica è molto più mobile e variabile di quanto noi abitualmente crediamo.


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