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Se l’eterna giovinezza diventa una vecchiaia infinita

Pochi adagi sono falsi come quello secondo cui la vita incomincia a quarant’anni. No, lì incomincia il declino, ed è inutile illudersi che le cose vadano diversamente. Tanto più quando la vita si allunga e si paventa un secolo di “declino”.

di Maurizio Ferraris

«Sta bene», pare che abbia mormorato in punto di morte Immanuel Kant. Correva l’anno 1804, Kant aveva ottant’anni, un’età venerabilissima per l’epoca, ma almeno da un decennio le sue forze intellettuali erano state progressivamente compromesse da una forma di demenza senile. Un ottantenne di oggi forse non direbbe «sta bene», perché la vita media si è allungata. Un ottantenne del futuro, quando pare sarà possibile vivere sino a 140 anni, forse maledirebbe le stelle come un eroe di Metastasio: in fondo, si troverebbe poco più che a metà del cammino, come un cinquantenne attuale. Non potrebbe, poniamo, assistere al pensionamento dei nipoti, al primo divorzio dei pronipoti, e scaricare l’aggiornamento 3493 del sistema operativo del suo computer.
Pochi adagi sono falsi come quello secondo cui la vita incomincia a quarant’anni. No, lì incomincia il declino, ed è inutile illudersi che le cose vadano diversamente. I quarant’anni che abbiamo dietro di noi sono di esistenza vigile e in ascesa, gli altri sono di declino, un declino che oggi è stimato in media di 30-40 anni, ma che nell’ipotesi dei 140 anni significherebbe “un secolo di decadenza”.
È bene saperlo per dare agli anni che vengono il loro intero senso, e anche per spiegarci fenomeni come la crisi dei quarant’anni, che dopotutto non è che un atavismo, il fatto che in effetti quella è l’età in cui i nostri antenati erano decrepiti e morivano. Non è detto che fossero più infelici di noi. La vita è una cosa seria, ma una vita lunghissima diventa di una serietà insostenibile. Commettere una stupidaggine a settant’anni è un conto, oggi, ma se la vita media si dovesse estendere sino ai 140 significherebbe avere di fronte a sé altri settant’anni di rammarico, vergogna e rimpianti.
Più seriamente, siamo sicuri che vivere sino a 140 anni sia auspicabile? Certo, non lo è per chi non ha i mezzi per consentirsi lo stile di vita che permette di raggiungere una età così venerabile. Non è affatto escluso che per permettere a pochi benestanti di raggiungere una vecchiaia estrema molti altri abitanti del pianeta rischino di morire prima del tempo, magari con organi espiantati a beneficio dei longevi. E non è affatto implausibile, in questo scenario, la costituzione di grandi cliniche in cui, a una temperatura costante, delle quasi mummie attendono impassibili la fine, mentre fuori i parenti picchiano contro i vetri e reclamano l’eredità (difficile stabilire chi sia più umanamente sgradevole, se la mummia o l’erede).
Ammettiamo, infine, che si riesca a concedere a tutti, senza discriminazione di classe, sesso o nazionalità, una aspettativa di vita di 140 anni. Le carestie più cupe si abbatterebbero sull’umanità, in gran parte inoperosa perché anziana, e soprattutto (ne sono certo) una noia e una tristezza senza fine riempirebbero le giornate dei più. Tutta la vita sarebbe un déjà vu, tutte le storie ci suoneranno vecchie e risapute, tutte le barzellette saranno stantie a meno che un provvidenziale Alzheimer ce le faccia apparire nuove di zecca. E per coloro — a tutt’oggi, la maggior parte dell’umanità — per cui la vita è come quella descritta da quell’allegrone di Hobbes, cioè “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”, verrebbe meno quel “breve” che allevia il peso degli altri quattro aggettivi.

Pubblicato da Repubblica, l’11/3/15

Illustrazione di Giò Pastori per Vita


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