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Boeri: Gli abitanti contano più delle case

Invitato al festival che si tiene a Lucca, il grande architetto spiega come il problema delle periferie non sia un problema edilizio. «Ci vuole più coraggio e più attenzione ai bisogni e alle aspettative delle persone»

di Giuseppe Frangi

Interverrà questa sera, via streaming, al Festival del Volontariato iniziato oggi a Lucca. Stefano Boeri è stato chiamato a parlare del tema che è stato al centro della sua riflessione e del suo lavoro in questi ultimi anni: “Testimoni della realtà – Disegnare città inclusive”. Architetto, premiato quest’anno per aver progettato con il Bosco verticale a Milano, quello che è stato ritenuto il miglior grattacielo al mondo costruito nel 2014, Boeri è un grande mobilitatore culturale, che ha sempre cercato di costruire legami tra chi fa la sua professione e i soggetti sociali che con più intelligenza cercano di pensare nuovi modelli di convivenza. Sarà questo il tema del suo intervento.

Da architetto, come spiega il degrado sociale che stanno vivendo tante periferie delle grandi città italiane?
Me lo spiego con il fatto che il problema delle periferie è sempre stato visto solo come questione edilizio-urbanistica. Invece bisogna procedere in modo completamente diverso, e costruire politiche dell’abitare che mettano insieme il sapere sociale e il sapere sugli spazi. Non è solo un problema politico. È una questione culturale. Il problema delle periferie oggi non è un problema edilizio.

In che senso?
Che oggi c’è bisogno di coraggio e di innovazione. Sono processi che vanno pensati senza tabù. Ad esempio, non si può tralasciare il tema della sicurezza, che assilla chi abita oggi le periferie. Non sono le ronde la soluzione, ma non si può far finta di niente. Ci sono esperienze a Milano, in zona Chiesa Rossa, di abitanti che volontariamente, a mani nude, fanno operazione di controllo di scale e scantinati, per tranquillizzare gli inquilini più fragili. Sono forme di prevenzione su furti e microcriminalità. Le città sono fatte da abitanti prima ancora che da abitazioni. Bisogna iniziare a prendersi più cura di loro.

In senso concreto cosa significa?
Ad esempio: ormai ci sono tanti spazi commerciali vuoti anche nelle periferie. Perché non farli essere luoghi per favorire una piccola imprenditoria diffusa. Negli Stati Uniti sta funzionando moltissimo l’autorganizzazione sulla riparazione di oggetti. È una cosa che con Celentano avevo proposto di lanciare anche per Milano. Ma il riuso è una tendenza che va cavalcata e può aprire opportunità in particolare nelle periferie.

C’è poi anche la dimensione estetica su cui lavorare…
Certo. E l’esperienza di Tirana dove il sindaco ha invitato tutti a colorare le case e gli edifici è interessante. Un modo per sconfiggere il grigiore che così spesso affligge le città e soprattutto chi le abita. Poi c’è il tema delle piazze. Sono luoghi importanti e spesso sono state sacrificati a snodi di traffico anziché a luoghi di relazione e di incontro. Sono spazi pubblici che hanno la loro bellezza nell’essere imprevedibili. Pensate al successo di piazza Gae Aulenti nella nuova down town di Milano. Poteva essere un luogo asettico tra grattacieli frequentati da bancari e banchieri, invece è un luogo vivo, dove incontri di tutto. Un successo che dal punto di vista di un urbanista sarebbe stato imprevedibile…


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