Cooperazione & Relazioni internazionali

Milano è bellissima ma non diteglielo

Una città che si reinventa sempre. Dove il continuo cambiare è una camaleontica natura. Pudica, senza smancerie né vanità. Per chi riesce a capirla, sempre più seducente e fiabesca nel suo saper dare speranza

di Aldo Nove

Milano è bellissima  ma non vuole che si sappia. Probabilmente non è molto milanese esserlo. Certo non è milanese ostentarlo. Milano è bellissima ma che non lo si dica, per carità, non sarebbe serio. È troppo forte la sua natura di città funzionale, la sua storia di città “dove si va per lavorare”. Milano non ha tempo per guardarsi allo specchio, e quando lo fa coglie indistinto il fiume elettrico delle persone che l’attraversano (come la raffiguravano i futuristi cent’anni fa), indaffarate ciascuna a inseguire il suo destino, in un intreccio che sembra un lento snodo autostradale di vite che s’affollano al casello, pagando il pedaggio. Per andare dove, poi. La crisi, quella che ci attanaglia ovunque e non ha localizzazione, essendo giustappunto globale, ha dato a Milano un ulteriore scossone, ne ha vanificato ancora di più l’identità. Se il lavoro viene meno, in questa città è tale la pressione del fare che allora tutto inizia a girare a vuoto, ma continua a girare. Una giostra fuori asse. Un caleidoscopio esploso.

Milano è veloce, non indugia su se stessa, non si guarda. Ma è piena di volti, di storie. Sono mutati i tratti somatici. Basta fare un giro in tram e guardare dentro e fuori da quel tram. Il mix è vivacissimo. Cinesi, pugliesi, africani, milanesi, filippini, inglesi, bergamaschi, russi. Una comunità frenetica che parla la lingua del lavoro che non c’è più e allo stesso tempo si reinventa a una velocità impressionante. Anni fa un filosofo francese, con una certa lungimiranza, inventò una nuova scienza sociale, e la battezzò così: “dromologia”. La scienza della velocità. Milano ne è il laboratorio. Non c’è mai tempo, e l’assenza (di tempo, appunto) è la sua dimensione interiore, la sua cifra più misteriosa e smaccata. Per chi riesce a coglierla, è seducente. È così indaffarata, Milano. Il futuro preme, lo fa in continuazione e non importa cosa rechi con sé. Non importa neanche se arrivi davvero o no: com’è arrivato l’Expo, alla fine.

La Madonnina che domina il Duomo è la regina della trasformazione, il centro di una ruota che gira a pieno ritmo. Lo senti fisicamente. Chi arriva da qualunque parte d’Italia alla stazione Centrale se ne accorge. Appena sceso dal treno sente come una mano che lo afferra alle spalle, e lo spinge. Bisogna incominciare a correre, e diventare milanesi. Il paesaggio muta, ma è nella sua camaleontica natura. Muta sempre. E anche se s’inceppa lo fa con un suo ritmo, nella magnanimità dell’apparenza.

Negli ultimi anni, quelli in cui la crisi si è fatta sentire, le strade di Milano sono diverse. Molte attività hanno chiuso. Ma è ben difficile che ciò assuma una forma definita. Viene in mente un film bellissimo uscito da poco di Alejandro Jodorowski, “La danza della vita”. Racconta di una città in crisi e le vetrine dei negozi sono tutte chiuse con la stessa identica scritta “Chiuso per fallimento”. Milano no. Se chiude riapre subito dopo.

Ecco allora tutta la nuova teoria delle attività alternative. Quella triste dei compratori di oro e quella altrettanto triste delle sale per giocatori d’azzardo, con tanto di angolo fumatori perché il vizio si accompagna al vizio. E poi la pletora dei “centri benessere” cinesi, sui quali si vocifera che spesso il benessere a cui si allude riservi ben poco originali deviazioni rispetto a quello delle più lussuose spa. Ma sono tutte maldicenze. Sono solo nuove attività. Ritornano ciabattini e artigiani che si offrono per riparare un po’ di tutto, dalle scarpe agli ombrelli fino agli oggetti simbolo del nostro tempo, i cellulari. Milano oggi pullula di cliniche per tablet e di boutique per iPhone. A Milano puoi stare sicuro che trovi in poco tempo la più memorabile cover per telefonini del mondo.

Milano anche da morta è viva. Poi ha i suoi malesseri. Da decenni ad esempio soffre della sparizione di uno degli elementi che più l’hanno caratterizzata, la nebbia. «A Milano c’è la nebbia» è un luogo comune talmente potente che in molti non sanno che non c’è più. Come un vestito, si abbinava bene al ritmo alienato di questa città, ne accompagnava la narrazione. Poi è sparita. Ma Milano resta nebbiosa dentro. Il suo grigiore ha una densità impalpabile e coriacea che è statuto e non ha bisogno di corrispettivo meteorologico. E oggi che si estende in verticale (con i nuovi grattacieli che hanno sostituito il bosco di Gioia offrendo allo storico quartiere di Isola uno skyline che sembra newyorkese ma non troppo) le carte si sono confuse ancora di più.

Ed è bello pensare come permanga, in certi angoli poco conosciuti dei Navigli, la Milano ottocentesca ritratta per sempre da Ermanno Olmi nel suo “L’albero degli zoccoli”, all’ombra di modernissimi palazzi lucenti. Passato e futuro in fondo non contano. Conta solo il presente e il presente è tanto, è massiccio a Milano.

I letterati ne hanno sempre parlato male. Se andiamo a rileggere i grandi poeti che nel Novecento hanno trattato le virtù meneghine, di virtù ne troviamo ben poca. Da Giovanni Raboni a Milo De Angelis, da Giovanni Testori a Franco Loi, Milano ne esce sempre male. Ma ne esce. Perché Milano non è un’amante, è una moglie. Diceva bene Giovanni Giudici, altro poeta milanese per adozione, che è più facile dirle “ti voglio bene” che non “ti amo”. Si amano Venezia e Roma. Ma Milano offre altre più pudiche e persistenti passioni. Ti ci affezioni e ne diventi parte.

Di sicuro, a Milano c’è posto per tutti. Ce n’è sempre stato. Dalla Milano dei meridionali a quella dei cinesi, l’invasione è lo status quo e Milano metabolizza tutto, in una forma che possiamo tranquillamente definire accoglienza. Senza smancerie. Alla milanese. Multietnica per vocazione, il suo centro è ovunque, in una fuga prospettica sterminata di storie, e in questa fuga c’è la sua poesia. Del resto, la parola “poesia” deriva dal verbo greco che significa “fare”.

Milano fa. Milano produce Milano e in fondo è tutto qua. Un tutto che ne contiene moltissimi altri, mondi che contengono mondi: cinesi che lavorano in attività italiane che poi i cinesi rilevano e dove gli italiani tornano a lavorare come dipendenti. Palazzi che soppiantano boschi per poi recuperarli sulle loro pareti come giardini verticali. Milano è un frullatore di vicende e di stili. E la vetrina dello store della grande marca si presta a diventare, la notte, il rifugio di uno dei tantissimi indigenti che la popolano. Quelli che lo sono per vocazione, quelli che la vita ha preso da sempre a calci e quelli che si sono ritrovati poveri di punto in bianco perché hanno perso il posto fisso che fisso non era. Una fiaba per adulti, Milano, dai multipli finali. Imprevedibile, è capace di lasciar posto a una parola delicata. Che nel 2015 è difficile da dire, e forse Milano riesce in qualche modo a preservarla. È una parola molto preziosa. È il vero motore di Milano. È la parola “speranza”

da Repubblica del 13 maggio 2015


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