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La libertà oltre lo Stato. Attualità di Tocqueville

"Libertà" è la parola chiave, la parola perno, che Alexis de Tocqueville (1805-1859) consegnò ai posteri. Non perché ne facessero un nuovo idolo, ma perché in tempi di crisi o di incauti ottimismi la sapessero usare accogliendo il rischio delle sue tante contraddizioni. L'attualità di un classico attraverso cui leggere i nostri giorni. Iniziamo da quattro parole chiave

di Marco Dotti

Nato a Parigi il 29 luglio 1805, Alexis de Tocqueville fu tra i pochi a intuire che la "grande trasformazione" in atto tra il XVIII e il XIX secolo affondava le proprie radici ben prima della Rivoluzione che, nel 1789, spazzò via le istituzioni dell'Antico Regime aristocratico e monarchico. La crisi, che col Terrore aveva assunto una forma istituzionale violenta, era al tempo stesso sociale, educativa, giuridica, ma anche culturale e spirituale. 

Per questa ragione, si sarebbe dispiegata a lungo – analisi che noi, oggi, a due secoli di distanza, non possiamo che confermare – proiettando ombre, non solo luci sul XX e XXI secolo.

Di pari passo con la "rivoluzione dell'eguaglianza" cresceva una forma nuova di dispotismo, non più illuminato e del tutto impersonale e cresceva il divario tra ricchi e poveri, dando vita a una società oziosa perché immobile e a una beneficenza legale capace solo di generare norme già disattese alla nascita.

Lavoro, educazione, pauperismo, dispotismo, informazione, colonialismo, libertàGrandi temi che Tocqueville sa collocare fuori dall'idillio delle "magnifiche sorti e progressive" del moderno Stato assistenziale.

L'attualità di Tocqueville  – percorso che noi, che assistiamo attoniti alla fine della macchina-Stato così come si è delineata nel suo sviluppo plurisecolare – e di libri come La democrazia in America o L'Antico Regime e la Rivoluzione o in brevi memorie come quella sulla povertà e il pauperismo* è tutta nella capacità di non nascondere contraddizioni che non si è ancora in grado di sciogliere.

"Libertà" è la parola chiave, la parola perno, che Tocqueville consegna ai posteri. Non perché ne facciano un nuovo idolo, ma perché in tempi di crisi la sappiano usare accogliendo il rischio delle sue tante contraddizioni.

Lasciamo spazio ai testi di Tocqueville, attraverso queste parole-chiave:

Prima parola chiave ►  Dispotismo

«Gli uomini, non più uniti da vincoli di casta, di classe, di corporazione, di famiglia, sono già troppo inclini a preoccuparsi solo dei loro interessi particolari, portati sempre a non considerare che se stessi e a chiudersi in un angusto individualismo in cui ogni virtù pubblica è soffocata. Il dispotismo, invece di lottare contro questa tendenza, la rende irresistibile perché toglie ai cittadini ogni passione comune, ogni mutuo bisogno, ogni necessità di capirsi, ogni occasione di agire insieme; li mura, per così dire, nella vita privata.

Essi tendevano già ad appartarsi, esso li isola; erano già freddi gli uni per gli altri, esso li gela del tutto. In queste società, dove nulla è stabile, ciascuno è continuamente assillato dal timore di scendere e dalla smania di salire; e poiché il denaro, come è divenuto il segno principale che classifica e distingue gli uomini così ha anche acquistato una mobilità straordinaria passando da una mano all’altra continuamente, trasformando la condizione degli individui, abbassando o elevando le famiglie, non v’è quasi nessuno che non sia costretto ad uno sforzo disperato e continuo per conservarlo o per acquistarlo. Il desiderio di arricchirsi a ogni costo, la passione degli affari, l’avidità di guadagno, la ricerca del benessere e dei godimenti materiali sono pertanto, in questa società le passioni più comuni.

Si diffondono facilmente in tutte le classi, penetrano fino a quelle che erano state fino allora più estranee ad esse, e arriveranno ben presto a indebolire e degradare la nazione intera se niente le fermerà. Ora, il dispotismo, per la sua essenza medesima, le diffonde e le favorisce. Queste passioni debilitanti lo aiutano; distolgono e occupano l’immaginazione degli uomini lontano dalla cosa pubblica e li fanno tremare alla sola idea delle rivoluzioni. Soltanto il dispotismo può fornire loro l’ombra e il segreto che danno agio alla cupidigia di assicurarsi guadagni disonesti sfidando il disonore. Senza di esso, sarebbero state forti; con esso, dominano»

Seconda parola chiave ► Libertà

«Solo la libertà, non certo il dispotismo, può combattere nella società i vizi naturali degli uomini e trattenerli sul pendio per cui scivolano. Essa sola, infatti, può trarre i cittadini dall’isolamento nel quale la stessa indipendenza della loro situazione li fa vivere, per costringerli a riaccostarsi fra loro, e li scalda e li unisce ogni giorno con la necessità di capirsi, di persuadersi e di favorirsi scambievolmente nella pratica degli affari comuni.

Essa sola è capace di strapparli al culto del denaro, ai piccoli pettegolezzi giornalieri dei loro interessi per far loro scorgere e sentire ad ogni istante la patria al disopra di loro e al loro fianco. Essa sola sostituisce di tanto in tanto all’amore del benessere passioni più energiche e più alte, offre all’ambizione scopi superiori all’acquisto delle ricchezze e crea la luce che permette di vedere e giudicare i vizi e le virtù degli uomini.

Le società democratiche che non sono libere possono essere ricche, raffinate, ornate, magnifiche, anche potenti grazie al peso della loro massa omogenea; vi si possono incontrare virtù private, buoni padri di famiglia, onesti commercianti e proprietari stimabilissimi; vi si vedranno anche dei buoni cristiani, perché la loro patria non è di questo mondo e la loro religione si gloria di crearli anche in mezzo ai costumi più corrotti e sotto i peggiori governi: l’impero romano, nell’estrema decadenza, ne era pieno; ma in tali società non si vedranno mai, oso dirlo, grandi cittadini e men che meno un grande popolo, e io non temo di affermare che il livello comune dei cuori e degli spiriti si abbasserà sempre finché eguaglianza e dispotismo vi saranno uniti».

Terza parola chiave ► Centralismo (nemico del sociale)

«Le libertà locali finivano sempre più per scomparire; cessavano i sintomi di una vita indipendente; gli stessi lineamenti nella fisionomia delle diverse provincie si confondevano; l’ultima traccia dell’antica vita pubblica era cancellata. E ciò non perché la nazione si illanguidisse: il movimento, al contrario, era dovunque. Ma l’unico motore ormai era a Parigi. Di questo darò un solo esempio tra mille.

Nei rapporti fatti al ministro sullo stato dell’arte libraria trovo che, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, v’erano stamperie importanti nelle città di provincia dove, poi non si trovano più stampatori o quelli che vi sono non hanno lavoro.

Ora, è indubbio che si pubblicavano più scritti di ogni genere alla fine del diciottesimo secolo che nel sedicesimo; ma il movimento del pensiero non parte più che dal centro. Parigi ha divorato completamente le provincie. Quando scoppiò la rivoluzione francese, questa prima rivoluzione era interamente compiuta».

Quarta parola chiave ► Filantropia contro elemosina di Stato

«Ci sono due tipi di beneficenza: l’una, la quale porta ciascun individuo ad alleviare, attraverso mezzi propri, le miserie che si trovano alla sua portata. Questa è vecchia quanto il mondo; è iniziata insieme alle miserie umane; il Cristianesimo l’ha fatta diventare una virtù divina e l’ha chiamata carità.

L’altra, meno istintiva, più razionale, meno entusiasta, spesso più potente, porta la società stessa a occuparsi dei problemi dei suoi membri e ad alleviarne sistematicamente i dolori. Codesta è nata dal protestantesimo e si è sviluppata solo nelle società moderne.

La prima è una virtù personale, separata dall’azione sociale; la seconda è al contrario prodotta e regolarizzata dalla società.

Non c’è, a prima vista, un’idea che sembri più bella e più grande che quella della carità pubblica. La società, gettando uno sguardo continuo su se stessa, sorveglia ogni giorno le sue ferite e si occupa di guarirle; la società, nello stesso tempo in cui assicura ai ricchi il godimento dei propri beni, proteggendo i poveri da una miseria smodata, chiede agli uni una porzione del loro superfluo per accordare agli altri il necessario. (…) Qualsiasi strategia che fonda la beneficenza legale su una base permanente e che le dà una forma amministrativa crea dunque una classe oziosa e composta da parassiti, che vive sulle spalle della classe industriale e lavoratrice.

È questa, oltre il suo effetto immediato, la conseguenza inevitabile. Essa ha riprodotto tutti i vizi del sistema monacale, meno le alte idee della moralità e della religione che spesso gli vengono accordate. Una tale legge è un seme avvelenato, messo nel cuore della legislazione; le circostanze, come in America, possono impedire al seme di svilupparsi rapidamente, ma non possono distruggerlo; e se la generazione corrente sfugge alla sua influenza, divorerà il benessere delle generazioni a venire.

(…) Il povero che chiede l’elemosina in nome della legge è dunque in una posizione ancora più umiliante dell’indigente che la chiede alla pietà dei suoi simili in nome di colui che vede con lo stesso occhio e che sottomette a leggi uguali il povero e il ricco. Ma non è ancora tutto: l’elemosina individuale stabilisce legami preziosi tra il ricco e il povero.

Il primo s’interessa tramite la beneficenza stessa alla sorte di colui del quale ha intrapreso l’alleviamento della miseria; il secondo, sostenuto dagli aiuti ai quali non aveva diritto di esigere e che forse non contava di ottenere, si sente spinto alla riconoscenza. Un legame morale si crea tra queste due classi che interessi, passioni e fortuna contribuiscono a separare; ma i loro desideri le congiungono. Non è affatto così nella beneficenza legale.

Essa lascia sussistere l’elemosina, ma ne rimuove la sua moralità. Il ricco, il quale la legge spoglia di una parte del suo superfluo senza consultarlo, non vede nel povero che un avido estraneo intestato dal legislatore alla condivisione dei suoi beni. Il povero, da parte sua, non prova alcuna gratitudine per una beneficenza che non gli si poteva rifiutare e che non saprà d’altronde soddisfarlo; poiché l’elemosina pubblica, che assicura la vita, non la rende più felice e agiata di quanto non lo faccia l’elemosina privata: la beneficenza legale non impedisce dunque che nella società si abbiano dei poveri e dei ricchi, che gli uni gettino attorno loro degli sguardi pieni di odio e timore, che gli altri non pensino ai loro problemi con esasperazione e invidia.

Piuttosto che tendere ad unire nello stesso popolo queste due frange rivali che esistono dall’inizio del mondo e che vengono definite come i ricchi e i poveri, la beneficenza legale rompe il solo legame che si poteva stabilire tra di loro, li schiera ciascuno sotto la propria bandiera, li conta e, riunendoli, li predispone al conflitto.

Ho detto che il risultato inevitabile della beneficenza legale era di mantenere nell’ozio la maggior parte dei poveri e di mantenere il loro ozio a spese di quelli che lavorano. Se l’oziosità nella ricchezza, l’oziosità ereditaria, acquistata dai servizi o dal lavoro, l’ozio socialmente apprezzato, accompagnato dal contentamento dello spirito, interessato dai piaceri dell’intelletto, moralizzato dall’esercizio del pensiero: se questa oziosità, dico, è stata madre di tanti vizi, che ne sarà dell’oziosità degradata dalla legge?

(…) Sono certamente ben lontano da voler fare qui il processo alla beneficenza che è allo stesso tempo la più naturale, la più bella e la più santa delle virtù. Ma penso che non si possano ritenere desiderabili tutte le conseguenze di questo principio così buono. Credo che la beneficenza debba essere una virtù virile e ragionevole, non una pratica debole e sconsiderata; che non si debba fare il bene che piace più a colui che dona, ma quello realmente più utile a colui che riceve; non quella beneficenza che allevia più completamente le miserie di qualcuno, ma quella che serve il benessere del numero più grande.

Non saprei considerare la beneficenza che in questo modo; intesa in un altro senso, essa è ancora un istinto sublime, ma non merita più ai miei occhi il nome di virtù. Riconosco che la carità privata produce quasi sempre degli effetti utili.

Essa si applica alle più grandi miserie, cammina dietro la malasorte, e ripara inaspettatamente ed in silenzio i mali che questa ha fatto. Essa si mostra ovunque ci siano mali da soccorrere; cresce con le loro sofferenze, e quando non si può contare su di essa se non imprudentemente, poiché mille incidenti potrebbero ritardare o arrestare il suo cammino, non si saprebbe dove ritrovarla, poiché non è affatto richiamata dal grido di tutti i dolori.

Ammetto che l’associazione di persone caritatevoli, regolarizzando i soccorsi, potrebbe rendere più attiva la beneficenza privata e darle più potere; riconosco non soltanto l’utilità, ma la necessità di una carità pubblica applicata a dei problemi inevitabili, come la debolezza dell’infanzia, la fragilità della vecchiaia, la malattia, la pazzia; ammetto ancora la sua utilità momentanea nei tempi di calamità naturali che di tanto in tanto sfuggono alle mani di Dio, e vengono ad annunciare alle nazioni la sua collera. L’elemosina dello Stato è allora tanto istantanea, tanto impervia, tanto passeggera quanto il male stesso»

#tocqueville

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* Le parole-chiave sono tratte da questi tre classici di Tocqueville: La democrazia in America, L'antico regime e la Rivoluzione, Sulla povertà.


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