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Il nuovo Isee? Amplia le disuguaglianze

Tiziano Vecchiato (Fondazione Zancan) boccia il nuovo Isee: non garantisce vera equità, ma solo equità nella valutazione della situazione economica. Manca un pezzo del ragionamento, quello che valuta i diversi bisogni delle persone. Così quello tra ministero e associazioni di disabili è un "dialogo fra sordi"

di Sara De Carli

Tiziano Vecchiato dirige la Fondazione Emanuela Zancan. Più volte ha accusato il welfare italiano di essere un sistema «dissipativo», che «consuma risorse in modo irresponsabile», «senza verifiche di rendimento». Rispetto al nuovo Isee la sua è una bocciatura.

Perché?

Innanzitutto l’Isee è un esempio emblematico della lentezza dei processi burocratici dell’Italia. L’Isee venne introdotto nel 1998, e non ha mai avuto pieno compimento in mancanza di alcuni regolamenti attuativi. Dopo 13 anni, viene lanciata la riforma (Decreto “Salva Italia”, nel 2011), che trova attuazione dopo due anni, a fine 2013 con un DPCM, per entrare a regime a gennaio 2015, senza che molti Comuni abbiano però ancora adeguato i regolamenti. Se l’iter è così lungo su un tema così delicato, che riguarda così tante famiglie, vuol dire che le istituzioni sono fuori dal tempo e questo è un problema che va affrontato alla fonte.

E dei dati presentati dal Ministero che dice?

Il Ministero parla di “Tre mesi di nuovo Isee. Prime evidenze”, ma quel documento non contiene evidenze. Ci sono soltanto indicazioni ricavate da analisi condotte sul 2% del totale delle DSU presentate nel primo trimestre 2015, peraltro – come dichiarato dallo stesso Ministero – non rappresentative perché mancanti di DSU che vengono presentate in altri periodi dell’anno (per nidi, scuola, Università ecc.). Inoltre il confronto tra vecchio e nuovo Isee è soltanto teorico in quanto non tiene in considerazione le differenze locali di applicazione del vecchio Isee rispetto alle regole nazionali previgenti.

La critica più dura al nuovo strumento viene dalle famiglie in cui c’è una persona con disabilità, che si trovano a dover contribuire in maniera più elevata ai servizi. Il Ministero al contrario dice che i nuclei dove è presente una persona disabile sono particolarmente tutelati dal nuovo Isee e che anzi risultano avvantaggiati rispetto al passato. Come la mettiamo?

Rischia di essere un dialogo fra sordi, perché partono da due piani differenti. Il fatto è che l’Isee entra nel merito della capacità economica delle famiglie, ma non della valutazione del bisogno. Faccio un esempio: prendiamo due famiglie, una con una disabilità molto grave e impegnativa e una con una disabilità più leggera. Se hanno lo stesso Isee il loro concorso economico ai servizi potrebbe essere uguale, anche se il loro bisogno non lo è. Il Ministero ragiona sulla capacità contributiva, le associazioni sul bisogno: è evidente che bisogna interfacciare le due cose, altrimenti lo strumento Isee rischia in realtà di ampliare le disuguaglianze.

Deve farlo l’Isee?

L’Isee oltre alla compartecipazione regola anche la possibilità di accedere o meno a determinati servizi sociali e sociosanitari ma non dovrebbe essere così, perché l’accesso e l’intensità di risposta è condizionato dai bisogni. L’Isee dovrebbe essere uno strumento da utilizzare soltanto per definire il livello di compartecipazione economica. Serve quindi un altro strumento che porti equità nell’accesso alle risposte ai bisogni. Questa equità oggi l’Isee non la garantisce, l’Isee garantisce solo l’equità nella valutazione della situazione economica.

Sui territori cosa state osservando?

In alcuni territori sperimentali che stiamo osservando, chi ha un Isee più alto e vede che dall’offerta pubblica non ha la stessa risposta di prima o per la stessa risposta deve pagare di più, lascia il pubblico e si rivolge al privato. Tanti la DSU nemmeno più la presentano. In questo modo però si allarga la forbice tra chi può trovare una risposta nel privato e chi la deve trovare nel welfare pubblico, con un rischio di effetto perverso e anche di sostenibilità per il pubblico, perché chi potrebbe contribuire maggiormente se ne va altrove.


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