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Mafia capitale: fermarsi all’indignazione o ambire al cambiamento?

Per poter provocare un cambiamento, vanno prima analizzate le cause che ci hanno portato fino a qui. La principale resta la mancanza di indipendenza, se non spesso la troppa vicinanza o addirittura organicità, di parte del terzo settore a partiti ed esponenti politici. Con conseguenze legate alla mancanza di trasparenza di affidamenti e bandi ed all’assenza di un serio monitoraggio delle attività e dei servizi affidati.

di Marco Ehlardo

In una recente presentazione del mio libro Terzo settore in fondo, a Roma erano presenti molti operatori sociali, alcuni dei quali impegnati in servizi e nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati.

Mi hanno posto, e si sono posti, moltissime domande. Le principali le condenserei in tre settori:

  1. come uscire dalla crisi di immagine causata dallo scandalo Mafia Capitale?
  2. quale ruolo possono assumere gli operatori sociali? Che loro preferiscono chiamare “lavoratori del sociale”, per segnalare, se fosse ancora necessario – e lo è – che quello dell’operatore sociale è un lavoro
  3. come si possono pressare le istituzioni locali perché mettano in condizione gli operatori e le organizzazioni di svolgere in maniera efficace il loro lavoro?

Al di là del fatto che, come sempre, alla fine avevano molte più risposte loro di quante ne avrei potute dare io, la cosa che mi ha colpito più positivamente è che ci sono molte persone intenzionate ad andare oltre gli scandali attuali, ma senza più tornare al “sistema” precedente.
Questo ha rafforzato la convinzione, che già stavo maturando, che l’inchiesta Mafia Capitale (e le altre più o meno piccole che ahinoi stanno emergendo) possa essere alla fine una straordinaria occasione di cambiamento.

Con molti se, ovviamente.

Per poter provocare un cambiamento, vanno prima analizzate le cause che ci hanno portato fino a qui.

La principale resta la mancanza di indipendenza, se non spesso la troppa vicinanza o addirittura organicità, di parte del terzo settore a partiti ed esponenti politici. Con conseguenze legate alla mancanza di trasparenza di affidamenti e bandi ed all’assenza di un serio monitoraggio delle attività e dei servizi affidati.

Altra causa è il concentrarsi, spesso, di grandi quantità di progetti e servizi a pochi soggetti, sia a livello locale che nazionale. Una mancanza di concorrenza che ricade sulla qualità dei servizi.

Infine il problema della partecipazione reale degli operatori sociali alla gestione di associazioni e cooperative, che di sovente sono ormai piccole aziende a gestione monocratica o di piccoli clan, che usano l’arma del precariato per relegare gli operatori in un ruolo quantomeno marginale.

Quali possono essere allora le proposte per un cambiamento effettivo del terzo settore, che sfrutti la fase critica attuale per rilanciarsi nel ruolo di soggetto innovatore e trasformatore della società?

Alcune (personalissime) idee.

  1. Creare organismi indipendenti, nazionali e locali, che monitorino la spesa pubblica in questo settore. Se l’organizzazione a cui è affidata la gestione di un servizio o di un progetto e l’ente che glielo affida (e che dovrebbe monitorarne la correttezza e l’efficacia della gestione) sono, a volte, quasi la stessa cosa, è ovvio che il sistema non ha funzionato e non può funzionare. è un ruolo che in alcuni casi (ad esempio nel sistema di accoglienza di richiedenti asilo) dovrebbero svolgere le prefetture, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Chi e come è tutto da valutare, ma almeno temporaneamente può essere una prima soluzione.
  2. Drastico abbattimento del ricorso agli affidamenti diretti. La recente analisi dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha portato alla luce un abuso di questa procedura, che in alcuni contesti raggiunge anche l’80% dei casi. Tra le città più importanti Firenze, Torino, Roma, Napoli, Bologna, Genova. Sarebbe oltremodo interessante capire anche come questi affidamenti crescano prima e dopo le elezioni locali.
  3. Porre dei imiti ai grandi e piccoli monopoli locali. Un’organizzazione può essere anche la più brava del mondo, ma è statisticamente improbabile che si aggiudichi la gran parte dei bandi e che gestisca fette rilevanti dei servizi locali. In più, spesso, amministrazioni locali e semi-monopolisti del terzo settore trovano soluzioni spurie per diminuire la percentuale dei servizi affidati dalle prime ai secondi; tipo mettere in un bando la piccola cooperativa o associazione come capofila, ma è la grande organizzazione a curare la parte amministrativa del progetto o del servizio, ossia la gestione delle risorse. Questo mortifica l’emergere di altri soggetti, magari più competenti almeno in alcuni settori. Analogo il caso di piccole organizzazioni che gestiscono in eterno gli stessi servizi. A volte perché effettivamente capaci, altre perché il servizio diviene una proprietà privata anche se gestito in maniera inefficiente.
  4. Introdurre la figura del responsabile trasparenza. Un’organizzazione del terzo settore che gestisce risorse pubbliche dovrebbe essere tenuta a darne conto. Difficile invece reperire online e offline bilanci, relazioni dettagliate di progetti e servizi, persino, a volte, gli organismi direttivi. La trasparenza è un dovere per un privato (e tale è il terzo settore) a cui sono affidate risorse di tutti. La figura del responsabile trasparenza, oltre a creare un interessante e nuovo (per l’Italia) settore di occupazione, consentirebbe di poter individuare costantemente il riferimento a cui chiedere conto di cosa fa o non fa un’organizzazione, di come vengono utilizzate le risorse, persino di quanti e quali incontri si svolgono tra responsabili delle organizzazioni e amministratori locali. Una magistratura “interna” (che in qualche modo andrebbe tutelata normativamente) che, forse, consentirebbe alla magistratura “esterna” di tornare ad occuparsi di problemi più classici rispetto alla cooperativa che specula sulla pelle dei più deboli.
  5. Promuovere una reale partecipazione degli operatori sociali. Quelli di voi che abbiano lavorato in piccole o grandi organizzazioni del terzo settore possono dirmi a quante assemblee hanno partecipato, con quale reale potere decisionale, e quanto peso avesse la loro competenza e la loro esperienza nella programmazione e gestione di progetti e servizi. Ricordo, in una passata esperienza lavorativa, un operatore che, facendo questo da anni, aveva osato criticare la dirigenza dell’organizzazione (di espressione meramente partitica) per alcune scelte senza senso in un progetto. Licenziato in tronco. Delle due l’una: o le associazioni si trasformano ufficialmente in aziende, e tanti saluti, o, se intendono restare luoghi appunto “associativi” (continuando, beninteso, a godere dei vantaggi di questa forma) devono smettere di essere feudi medievali e coinvolgere gli operatori in maniera realmente partecipativa. Anche perché poi sono loro a pagarne le spese quando l’associazione fa scelte sbagliate. Si chiama democrazia; il terzo settore dovrebbe esserne l’alfiere. Troppo spesso non è più così.

Sono solo alcune idee e considerazioni. Personali, ma non più del tutto personali. Approfittiamo di questo momento e forse riusciamo a cambiare le cose. Ora o mai più?


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