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Cooperazione & Relazioni internazionali

Border Patrol: il business Usa sugli immigrati

Nelle società occidentali, crescono le "vite di scarto": immigrati, carcerati, disoccupati, malati. Ma anche gli "scarti" vengono messi a valore da queste società e generano un privatissimo profitto. Chi ci guadagna? In primis le grandi corporation che hanno puntato tutto sulla gestione globale delle emergenze. Ecco perché il business di alcune multinazionali statunitensi che fanno affari sui migranti rischia di diventare un modello condiviso in Europa

di Marco Dotti

«Con gli immigrati si fanno più soldi che con la droga». Le parole di Salvatore Buzzi, presidente della “Cooperativa 29 giugno” – 1400 incolpevoli dipendenti, un giro d’affari di milioni di euro per l’intero gruppo controllato – al centro dello scandalo “Mafia capitale”, mettono i brividi.
Mettono i brividi perché chiunque ancora non abbia la coscienza dissociata dall’intelligenza non può negare che in quelle parole vi sia una, per quanto cinica e brutale, verità: sulla pelle dei migranti si fanno molti soldi, a Roma come altrove. Il problema, come tutto oramai, è locale ma al contempo globale.
Nella ragnatela-mondo, la tratta globale della “merce umana” – ricordiamo che in Italia, secondo dati internazionali, vi sono circa 12mila persone in condizioni di schiavitù– è sempre pronta a mutare un disvalore morale in valore economico. Il profitto è dietro l'angolo di ogni disgrazia.

Negli Stati Uniti, ad esempio. nonostante l’attenzione sia andata in questi giorni al tentativo di Barack Obama di riformare il sistema immigratorio, va ricordato che la commercializzazione dei migranti, visti come asset economici, va ovunque di pari passo con la privatizzazione della loro detenzione o della gestione – sempre privata – delle loro fragilità.
Tra il 2005 e il 2012 l’Italia ha speso 1,6 miliardi di euro, 281 milioni provenienti dall’Unione Europea, per affrontare un perenne stato di emergenza che oggi sappiamo ha reso come la gallina dalle uova d’oro a certi cooperanti.

Gli Stati Uniti spendono – ma nei bilanci si parla sempre di “investimenti” – 2,8 miliardi di dollari l’anno per la detenzione dei migranti clandestini. Il doppio di quanto spendevano nel 2006.

Ogni Stato ha circa 400 posti letto per minori clandestini non accompagnati, mentre il numero i migranti adulti clandestini incarcerati nei centri di detenzione sul suolo americano è di 34mila persone al giorno. Una soglia di massima capienza che deve essere tenuta costante per mantenere la redditività del sistema.

Questo genera inevitabili distorsioni e una radicale inversione fra mezzi e fini: non si recludono “semplicemente” clandestini, ma si producono quotidianamente arresti di clandestini al fine di garantire la sopravvivenza economica del centro deputato a recluderli.

In numeri: ogni giorno, 34mila persone vengono smistate o confermate in detenzione in uno del 250 centri sparsi sul territorio a stelle e strisce.

Sono centri privati, per proprietà o comunque per gestione, affidati a società come la Geo Corp o Corrections corporation of America, colossi transnazionali della detenzione, che operano quasi ovunque nel mondo. Alla richiesta di tagliare una voce di spesa che si fa sempre più pesante, la "Big Corporation" della detenzione – che, oltre ai centri di detenzione per migranti clandestini, gestiscono carceri in ogni dove – ha risposto picche e ha ottenuto il rifinanziamento dell'attività, con un incremento di 440 milioni di dollari per il capitolo “clandestini”.

Nel frattempo, una ricerca sui micro-comportamenti dei politici statunitensi rivela che, tra una votazione e l'altra, uno dei loro passatempi preferiti è giocare a un videogioco "sparatutto", da anni al centro di accuse di razzismo, che consiste nell'ammazzare più migranti possibile. Un giochetto semplice, che rientra nella categoria dei "casual games", ovvero dei passatempo. Eppure, tra una votazione e l'altra, quando magari si sta discutendo di rifinanziare il business della detenzione dei migranti, questi politici sparano a donne e bambini messicani, "senza freni e senza pietà" – come si legge nelle brevi note del "gioco".

Questo significa, come ha osservato il padre gesuita Thomas Greene, che il compito delle autorità di polizia finisce per essere quello di “garantire” la redditività del business.

In altri termini, che le strutture costruite e gestite dalle società private di detenzione devono essere riempite quotidianamente di migranti, nella maggior parte dei casi senza precedenti penali, in modo tale da assicurare la soglia giornaliera di redditività e di capienza, al costo di 160 euro giornalieri pro capite per persona.

L’uomo quasi non serve più, non nei normali processi produttivi del “mundo civilizado”. E così, come ha osservato il professor Yuval Noah Harari, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, parlando di un'altra deriva biopolitica, quella del darwinismo high-tech:

quando l’economia prende a godere di “servizi di algoritmi altamente intelligenti e non coscienti, il comune essere umano comincia a perdere valore”.

Questo sul piano morale, dove i numeri uccidono la concretezza dialogica delle relazioni. Ma…

… sul piano finanziario, anche una vita di scarto può essere messa a valore e produrre per altri quegli utili che, oramai, non potrà più produrre per sé. In questo senso – cinico e brutale, ripetiamolo – le biopolitiche dell’esclusione sono un business imponente su scala globale, con impatto locale.

Rendono quasi più della droga e comportano assai meno rischi di produzione.

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