Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Politica & Istituzioni

La buona scuola la fanno i buoni insegnanti

Mimmo Aprile, docente di informatica a Lecce, difende la riforma e spiega perché a suo parere apre una strada da seguire, per ottenere finalmente il cambiamento della scuola

di Sara De Carli

Domenico Aprile è un ingegnere informatico gestionale e un insegnante (precario) di informatica nella scuola secodnaria. Lui però preferisce definirsi "flessibile" e "sperimentatore": ad esempio lavora per portare la roboticaeducativa dentro la scuola. È digital champion di Caprarica di Lecce. Crede che la riforma appena approvata sia davvero l’inizio di #labuonascuola: «È stata imboccata una strada e io voglio percorrerla», ha scritto ieri sul suo profilo Facebook. Gli abbiamo chiesto cosa lo convince tanto.

Qual è nel complesso il suo giudizio sulla riforma?

Se dovessi esprimere una valutazione, direi “buono”. In realtà credo che durante la sua gestazione la riforma abbia perso per strada alcuni elementi di incisività, rispetto alla formulazione iniziale. Lo ritengo comunque l’inizio di un percorso di cambiamento necessario.

Quali sono i punti che apprezza maggiormente?

Il piano straordinario di assunzioni. L’autonomia scolastica. Il curriculum dello studente. Si badi bene, punti strettamente correlati. Il piano di assunzioni, senza attendere i ricorsi alla giustizia italiana (necessari, ricordiamolo, per dare piena attuazione alla sentenza europea) risolvono un problema annoso che ha generato una serie di distorsioni nel sistema scuola. In particolare, supera il sistema delle graduatorie (prima permanenti, poi “ad esaurimento”) che hanno generato la corsa ai titoli, ricorsi a valanga, errori di gestione e, me lo consenta, poca valutazione delle reali competenze (che è ben diversa dalla “misura” data da un punteggio). Ma questo piano di assunzioni (e quelle che dovrebbero avvenire in futuro tramite concorso) non avrebbero senso se non legate all’attuazione dell’autonomia scolastica.

Cioè?

Oggi un docente è assegnato a una scuola in modo casuale e, nella migliore delle ipotesi, risponde al principio di “comodità per il docente”. Capita, così, che un docente che ha sempre insegnato Informatica nel primo biennio di un istituto professionale, pur di avvicinarsi a casa vada ad insegnare Sistemi e Reti nel triennio di un ITIS, vicino a casa del docente. La scuola, ad oggi, non può metter becco in questa procedura. Ma è un assurdo. Con la riforma, invece, i docenti potranno proporsi alle scuole e/o le scuole potranno proporre ai docenti di avere degli incarichi anche su materie di “ampliamento dell’offerta formativa”. E questo si lega al Curriculum dello Studente, che deve essere al centro della scuola: lo studente, infatti, potrà scegliere di arricchire la propria formazione scegliendo di inserire alcune materie invece che altre e questa scelta determinerà una formazione personalizzata che verrà valorizzata in termini di competenze acquisite. Ovviamente non mi aspetto che uno studente possa escludere Matematica dal proprio curriculum se frequenta un Liceo Scientifico; ma che possa scegliere una Robotica educativa invece di Informatica non mi pare un delitto. Anzi! Non più “polli da batteria” che devono sapere a memoria gli stessi concetti, dunque, ma più autonomia, autorealizzazione, secondo le proprie inclinazioni. Mi pare una bella sfida, una grande novità.

Luigi Berlinguer su l'Unità ha parlato della riforma come di uno scossone necessario. Perché a suo parere la scuola italiana oggi ha bisogno di un cambiamento? Lo avrà con questa riforma?

La scuola italiana non ha bisogno di uno scossone ma di una scossa da 220 Volt! Salvatore Giuliano, dirigente dell’Istituto Majorana di Brindisi, dice sempre che se un uomo del primo Novecento tornasse in vita, l’unico posto dove si troverebbe a proprio agio sarebbe la scuola, perché non è cambiato nulla: stessi banchi, stessa cattedra, posizionate nello stesso modo, stessa modalità di far lezione. In alcuni casi, stessi contenuti. Si troverebbe in difficoltà solo se vedesse le LIM, ma ci metterebbe pochissimo a imparare ad usarla come fa la maggior parte degli insegnanti, cioè come una costosa lavagna magnetica su cui scrivere con un pennarello. Il mondo è cambiato e la scuola è rimasta ancorata a vecchi cliché: il “tempio del sapere aulico”, con poco confronto con il contesto (anche territoriale) in cui è immerso. Certo, ci sono tanti esempi virtuosi, ma non sono messi a sistema e, spesso sono il frutto di buona volontà dei singoli o piccolo gruppi che, per converso, non ottengono alcun riconoscimento né economico né di status. Berlinguer parla con cognizione di causa, poiché fu “dimesso” perché propose la valutazione degli insegnanti a corredo della scuola dell’autonomia. Questa riforma contiene degli elementi interessanti in questo senso, ma non potrà mai, da sola, essere efficace. Come in ogni trama, gli interpreti fanno la differenza: se a guidare la Ferrari ci mettiamo il sottoscritto, allora non vinceremo proprio nulla.

Di scuola digitale e di innovazione digitale si è parlato tanto e tante volte, ma alla fine non c’è ancora stato una rivoluzione a livello di sistema complessivo della scuola. Lei è anche digital champion, ci può dire cosa potrebbe cambiare rispetto a questo tema?

Rispondo riadattando il “paradosso di Solow”: nella scuola si vede tecnologia ovunque, tranne che nelle statistiche di miglioramento del sistema rispetto agli standard europei (basta verificare i risultati OCSE-PISA: competenze di lettura e logico-matematiche sotto media; rapporto docenti-alunni insoddisfacente; alunni infelici e docenti disinteressati). Qualcosa non ha funzionato. Diciamo intanto che, nel 2008-2011 la spesa in istruzione si è ridotta (rapporto Education at a glance 2014): e questo la dice lunga. Ma è anche vero che quei (pochi) soldi sono stati spesi male: si è pensato che introdurre tecnologia in classe bastasse per modificare il sistema di istruzione, inteso, in particolare, come modalità di insegnamento/apprendimento ma anche ad altri livelli. Però, poi, abbiamo una Circolare Ministeriale (la n.30 del marzo 2007) che vieta l’uso del “cellulare” in classe. Attenzione, “cellulare” e non “smartphone”: perché gli “smartphone” sono stati immessi sul mercato nel giugno del 2007, ossia tre mesi dopo. Ora, come si fa a fare una didattica basata sul BYOD (Bring Your Own Device), se vige questa anacronistica ed assurda circolare? Ed ancora, che senso ha proporre un compito all’esame di Stato in cui i ragazzi devono progettare un web community su carta? Ed allora, il problema non è tecnologico ma metodologico. La tecnologia, da sola, è inanimata. Non è il “fine”, ma il “mezzo”, con cui sviluppare competenze. Se pensassi di far “innamorare” gli studenti degli algoritmi senza legarli alla risoluzione di problemi concreti, avrei fallito in partenza. Comunque, se proprio dovessi individuare un punto dolente, direi di partire dall’infrastrutturazione di tutti gli edifici scolastici con la Banda Larga: navigare a 7Mbps è ben diverso che farlo a 100Mbps. E non solo per la didattica, ma anche per gli uffici amministrativi. Il web è ormai una commodity, non un bene di lusso: non si può attendere un finanziamento PON FESR per infrastrutturare la scuola: occorre scorporare una parte di tale Fondo e usarlo per rendere disponibile a tutti le stesse condizioni di base.

Dicono che il problemi siano i maggiori poteri dati ai presidi (che succede se un DS è un incompetente?) e la scarsa obiettività che ci può essere nella valutazione degli insegnanti: da insegnante che ne pensi?

E che succede se un chirurgo, un docente, un avvocato sono incompetenti? In classe ci vanno i docenti, sono loro il “front end” della scuola. Il danno che, potenzialmente, possono arrecare ad un alunno, è più rilevante, poiché parliamo di persone. Chiariamo un equivoco di fondo: il Dirigente Scolastico non è un uomo solo al comando. Presiede il Comitato di Valutazione che è composto, però, da tre docenti (due nominati dal Collegio dei Docenti ed un dal Consiglio di Istituto), un rappresentante dei genitori e un rappresentante degli alunni e, infine, un membro esterno (docente, dirigente, etc.) nominato dall’Ufficio Scolastico regionale. Non mi pare che sia nelle condizioni di “maggioranza”. Per quanto riguarda la scelta dei docenti dagli Albi Territoriali, intanto chiariamo che il DS «è tenuto a dichiarare l'assenza di cause di incompatibilità derivanti da rapporti di coniugio, parentela o affinità, entro il secondo grado, con i docenti assegnati al relativo ambito territoriale». Inoltre, la riforma introduce degli elementi di novità in termini di valutazione dell’operato del Dirigente Scolastico. Quindi, a me pare ovvio che possa scegliersi la squadra con cui giocare una partita. Questa è una novità importante. Non è che con la riforma, improvvisamente, vengono generati Dirigenti incapaci: esistono già oggi (come docenti incapaci). Solo che, finora, non rispondevano (o in minima parte) del proprio operato. Infine, guardiamo anche il rovescio della medaglia: il Dirigente propone un incarico, se il docente riceve più proposte, può scegliere. Quindi, la scelta è reciproca: se non ci si trova bene, il docente può cambiare scuola, anche proponendosi ad un dirigente, al fine di veder valorizzate le proprie competenze.

Il Governo è stato accusato di aver fatto errori di contenuto, di metodo e comunicazione. Può essere, ora però c'è bisogno di ricoinvolgere i docenti, perché evidentemente riformare la scuola non è questione solo di fare una legge ma di cambiare la prassi quotidiana. Le sembra possibile o la frattura con il mondo della scuola è ormai irreversibile? A che condizioni?

Come dice una collega in gamba, il primo errore è stato quello di usare l’aggettivo “buona”, perché è un aggettivo da libro cuore: se esiste il “buono” esiste il “cattivo”. E questo, in un Paese abituato alla mediocrità e disabituato al merito, non va bene. Quanto al metodo, io non ricordo a memoria una consultazione così ampia e partecipata, non solo sui social, ma anche nelle piazze, nei Collegi Docenti. Certo, se l’obiettivo era quello di dare la parola a tutti, anche (e soprattutto) ai non addetti ai lavori, allora ci sarebbe stato bisogno di andare nei luoghi in cui ti aspetti di trovare questi “stakeholders”: le piazze, ad esempio. Oppure i centri commerciali. Le convention di settore (per le imprese)… Ma, di certo, una riforma fatta dagli addetti ai lavori non può avere successo. Una riforma della Sanità fatta da medici e infermieri, della Giustizia fatta da giudici e avvocati nascerebbe monca, perché taglierebbe fuori chi, da tale riforma, è maggiormente interessato: i cittadini. In ogni caso, una volta “ascoltato” queste parti, occorre decidere. Questo è stato l’altro errore. L’iter avrebbe dovuto essere anticipato a novembre, per rendere la riforma pronta già a settembre 2015. Nella sua interezza.

Sul “ring permanente”, sarà un elemento di criticità, inutile dire il contrario. Io credo che, nella scuola, esistano fondamentalmente tre categorie di soggetti: gli innovatori, i “dormienti”, i conservatori. Sugli ultimi è inutile contare, per attuare la riforma. Sia chiaro, non sto dando giudizi di merito: tra i conservatori ci sono colleghi validissimi, come ci sono persone poco valide nelle altre “categorie”. Ciò che è successo con la riforma è che molti dei “dormienti” (ossia coloro i quali non sono contrari a prescindere ma hanno timore che il cambiamento possa danneggiarli) hanno ricevuto informazioni distorte: già dopo l’approvazione in Senato, alcuni di loro, ascoltando alcuni elementi di novità, mi hanno espresso la non-contrarietà (ad esempio: la possibilità di avere un monte ore di insegnamento ridotto e dedicarsi ad attività da “middle management”, perché già lo fanno e così vedrebbero riconosciuto un proprio ruolo. Ora, bisognerà emanare decreti attuativi che rendano concrete le innovazioni, puntando a coinvolgere questi colleghi nei processi di “change management”. In questo, gli “innovatori” giocheranno un ruolo importante. Su una cosa concordo con chi ha scioperato: la buona scuola la fanno i bravi insegnanti, dimostriamo di esserlo.

Su Fb ha scritto di avere qualche idea per percorrere la nuova strada tracciata dalla riforma, vuole anticiparci qualcosa in sintesi?

Mi riferivo ad una riforma, profonda ed incisiva dell’esame di Stato. Ma credo che ci siano tante altre cose da fare. Intanto, mettere a sistema le esperienze di innovazione che già ci sono, in giro per lo Stivale. Invece di osservare queste realtà come “marziane”, proviamo a chieder loro come hanno fatto e a rendere scalabili e replicabili questi modelli, non solo didattici. Poi, punterei a rendere ancor più incisiva l’autonomia scolastica e funzionale. Non intendo soltanto la questione del reclutamento, ma dell’istituzione dei “centri di costo” associati al singolo docente. Oggi, quando la scuola riceve un finanziamento per un progetto, la segreteria è investita di ogni responsabilità amministrativa e contabile: propongo, invece, che il docente referente/coordinatore possa autonomamente gestire il fondo del progetto (rispondendo, è ovvio, a canoni predefiniti) e, al termine rendicontare alla segreteria che provvederà a tramettere tutto all’Ente gestore (Stato, Regione, EU). Ciò presuppone, ovviamente, l’introduzione del principio di responsabilità diretta: chi sbaglia, paga. In prima persona. Ma anche, si prende i meriti ove ci siano.

Foto di Getty Images


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA