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Povertà, adesso il vero divario è generazionale

L’intervento del direttore di Fondazione Zancan, Tiziano Vecchiato, sui dati Istat: «La difficile mobilità sociale penalizza i ragazzi che crescono in famiglie povere. Servono politiche attive, quelle attuali non superano i test di efficacia»

di Tiziano Vecchiato

L’appuntamento annuale con le statistiche Istat sulla povertà in Italia quest’anno è inconsueto, perché le stime sulla povertà si basano su dati di spesa delle famiglie calcolati con un metodo diverso dagli anni precedenti. I dati generali ci parlano di 4 milioni 102 mila persone in condizione di povertà assoluta e di 7,8 milioni di persone in condizione di povertà relativa. Ci dicono anche che tra il 2013 e il 2014 la povertà non è aumentata, assestandosi su un trend di stabilità dopo l’impennata del 2012. Potrebbe sembrare un messaggio rassicurante, in particolare per la politica e per il modo italiano di aiutare i poveri. In questi anni hanno prevalso le politiche passive, l’assistenza di sussistenza, caratterizzata da tanti e troppi trasferimenti monetari e pochi servizi. Non si privilegia l’aiuto che aiuta e non si valorizzano le capacità, consentendo ai poveri di uscire dalla povertà.

Ma torniamo al cambiamento di metodo. Le stime precedenti indicavano per il 2013 oltre 6 milioni di poveri “assoluti”, mentre ora sono ricalcolati a 4,4 milioni. Lo stesso è accaduto per i poveri relativi, che erano stimati in oltre 10 milioni (sempre nel 2013), mentre ora sono riportati a 7,8 milioni. È come se la povertà assoluta e relativa si fossero ridotte di circa il 20%. Questo ricalcolo non deve trasformarsi in illusione ottica e in strumentalizzazione politica. Se la povertà fosse diminuita potremmo rilassarci, prenderne atto e non metterla ai primi posti dell’agenda politica. Potremmo parcheggiarla nelle politiche tradizionali, che invece contribuiscono al deficit strutturale che è la povertà italiana, di lungo periodo, affrontata con politiche assistenzialistiche. Sono politiche che non hanno il coraggio di riconvertire i trasferimenti monetari in servizi e occupazione di welfare. Non considerano le risorse a disposizione come un fondo di investimento di circa 50 miliardi e quindi non affrontano la sfida del rendimento e della valutazione di impatto sociale.

C’è poi un altro aspetto della povertà che viene confermato dai dati Istat. Non è quello classico del cronico divario tra Nord e Sud. C’è un divario molto più profondo, che è la distribuzione della povertà tra generazioni. Nel 2014 l’incidenza della povertà assoluta tra i minori risulta, infatti, al 10%, cioè più del doppio che tra gli anziani (pari al 4,5%). È in sostanza disuguaglianza non solo territoriale ma generazionale che penalizza le nuove generazioni e le famiglie con figli piccoli. È un paradosso umano e sociale. Costringe le famiglie che coltivano la vita ad affrontare questa responsabilità senza i mezzi adeguati. Quasi un quinto (18,6%) dei nuclei familiari con tre o più figli minori sono “assolutamente poveri”, contro uno su 20 (4%) dei nuclei con almeno due anziani. La diffusione tra i nuclei con tre o più figli minori è aumentata di un punto percentuale tra il 2013 e il 2014 (dal 17,6% al 18,6%), mentre tra le famiglie con due o più anziani è diminuita.

Infine emerge con chiarezza una patologia sociale radicata nel nostro paese. Riguarda la difficile mobilità sociale che penalizza i ragazzi che crescono in famiglie povere. La loro speranza di migliorare la propria condizione rispetto a quella dei propri genitori è ridotta, mentre in altri paesi non è così. Due indicatori di questo rischio di immobilità sociale: nel 2014 risultano assolutamente poveri l’8,4% dei nuclei con capofamiglia con licenza elementare contro il 3,2% dei nuclei con capofamiglia almeno diplomato; la povertà assoluta riguarda l’1,6% dei nuclei con persona di riferimento dirigente/impiegato, contro il 9,7% tra le famiglie di operai e il 16,2% tra quelle con capofamiglia in cerca di occupazione.

Per queste ragioni il quadro che l’Istat ci propone è anche un invito a resettare i modi tradizionali di affrontare la povertà, a rimettere in discussione i paradigmi assistenzialistici, a chiederci cosa significa politiche attive visto che quelle attuali non lo sono e non superano i test di efficacia. Speriamo di farne tesoro aprendo un serio confronto e guardando oltre la siepe.


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