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Come sono attraenti le scuole speciali

Le scuole speciali in teoria dovrebbero essere scomparse fin dal 1977, quando l'Italia ha optato per l'inclusione. Esse stanno vivendo una stagione di grandi consensi, per quanto nessuno metta in discussione il valore del modello della "scuola di tutti". Un saggio di Giovanni Merlo prova a spiegare perché

di Sara De Carli

Giovanni Merlo, direttore di Ledha, ha appena pubblicato "L'attrazione speciale" (Maggioli Editore), un saggio sulle scuole speciali in Lombardia e sulle ragioni che spingono i genitori a sceglierle. Un titolo che vuole sottolineare la seduzione della proposta delle scuole speciali, una realtà niente affatto residuale come si tende a pensare: benché nessuno metta esplicitamente in discussione il modello della scuola per tutti, scelto dall’Italia fin dal 1977, sono sempre di più le famiglie che scelgono un’educazione separata per i loro figli. Giovanni Merlo non giudica la scelta individuale delle famiglie, ma cerca di capire quali sono le ragioni, nel contesto sociale, culturale, politico e di presa in carico, che orientano verso questa scelta e rendono possibile una nuova stagione di successo per le scuole speciali quasi 40 anni dopo la legge che sostanzialmente le svuotava.

Perché esistono ancora le scuole speciali?

La risposta alla domanda a monte è già una sorpresa: “Esistono ancora le scuole speciali?”. Sì. E non si tratta nemmeno di un fenomeno residuale come si potrebbe pensare. Solo in Lombardia sono attivi 16 plessi, all'interno dei quali sono presenti 24 scuole speciali di cui cinque dell'infanzia, 17 primarie e due secondarie di primo grado. In totale, sono frequentate da quasi 900 tra bambini e ragazzi. Nella maggior parte dei casi, si tratta di scuole annesse a centri di riabilitazione, con la sola eccezione di un istituto di Seregno, in provincia di Monza e Brianza. Questi bambini rappresentano lo 0,006% del totale della popolazione studentesca, ma se li rapportiamo più correttamente al numero degli alunni con una certificazione di disabilità, scopriamo che essi sono il 3,8% del totale degli alunni con certificazione in Lombardia. Non è quindi così poco.

Il libro nasce dalla sua tesi di laurea: cosa l’ha sorpresa in questo lavoro?

La ricerca non entra nel merito di come funzionano le scuole speciali, se funzionano bene o male e nemmeno vuole giudicare se la scelta della scuola speciale sia sia un bene o un male. Certo il mio punto di partenza è la mia adesione convinta al tema dell’inclusione, al diritto a una vita insieme agli altri. Io mi sono semplicemente chiesto come è possibile che dal 1977 ad oggi le scuole speciali esistano ancora. Ho scoperto un mondo diverso da quello che immaginavo. Pensavo, come molti, che queste scuole esistono perché ci sono ragazzini che hanno sperimentato un fallimento nel loro percorso nella scuola di tutti, invece per la grandissima parte delle famiglie la scelta della scuola speciale è “la scelta migliore” per i propri figli, non “il male minore” né il risultato di un fallimento della scuola, tant’è che la maggior parte entra nelle scuole speciali nel passaggio dalla scuola materna alla scuola elementare.

Cosa allora orienta una famiglia verso una scuola speciale?

Il denominatore comune che fa dire alle famiglie che per i loro figli la scuola di tutti non va bene è “perché sono gravi”. Ma quand’è che un bambino con disabilità diventa troppo grave per la scuola normale? La legge non lo dice. Infatti nelle scuole speciali troviamo bambini con la stessa gravità di bambini che incontriamo nella scuola di tutti. Da un lato quindi l’offerta crea la possibilità: se non ci fossero scuole speciali il problema non si porrebbe. Ma anche questa condizione non è sufficiente, perché se la scuola di tutti realizzasse davvero l’inclusione per tutti, forse le scuole speciali si svuoterebbero da sole. Invece hanno liste d’attesa.

Tanti genitori dicono che i loro figli apprendono meglio, di più. Insomma, non è un ripiego, né un di meno, ma un di più.

Non c’è alcuna evidenza che imparino di più, ovviamente se confrontiamo una buona scuola speciale e una buona scuola ordinaria; non c’è un sapere scientifico su questo, magari nascerà un dibattito in futuro. Quel che è certo è che nella scuola speciale c’è più protezione. Tutti i genitori intervistati hanno detto “per noi non è un ripiego ma la scelta giusta”, anzi mi hanno detto di lottare perché ce ne siano di più, anche per gli altri. Quello che emerge è che incredibilmente questi bambini sono considerati così gravi da non poter andare a scuola con gli altri, ma tutte queste famiglie non vengono prese in carico: tutte hanno soltanto una presa in carico sanitaria stretta, solo sul bambino e solo sulla menomazione. Non c’è una presa in carico della famiglia, non incontrano associazioni, servizi sociali, nessuno che accolga le fatiche delle famiglie. Le scuole speciali lombarde, tranne due casi, non sono scuole speciali tout cort ma scuole annesse ai Centri di riabilitazione: è rassicurante, tuo figlio lì avrà tutti i trattamenti e anche la scuola. Noi parliamo di diritto all’inclusione ma al momento buono se uno ha bisogno di tanti sostegni un po’ diversificati viene subito etichettato come “troppo grave” e si immagina che abbia bisogno di un trattamento speciale. La condizione necessaria per l’invio in queste scuole è che tutti sono d’accordo: famiglia, specialisti, la scuola dove dovresti andare e la scuola speciale… significa quindi che tutti hanno in mente che esiste un livello di gravità che impedisce di andare nella scuola di tutti. È questo il problema, perché tutto basato sul non detto, sulla discrezionalità.

La scelta per la scuola speciale quindi a suo parere è una scelta “sbagliata”?

Non mi permetto di giudicare le scelte dei genitori. Magari per tuo figlio non è la scelta sbagliata, però io credo che sia una scelta politica e sociale sbagliata. Bisogna investire nelle scuole tout court, non nelle scuole speciali. Una cosa che mi ha molto colpito è il fatto che la “scomparsa” di questi bambini dalle scuole non preoccupi nessuno. Nessuno poi li va a cercare. Quando con l'editore abbiamo scelto il titolo, alla fine abbiamo optato per “l’attrazione speciale” per sottolineare l’aspetto seducente di una proposta rassicurante, ma l’alternativa era “il banco vuoto”. In Lombardia abbiamo quasi 900 banchi vuoti che nessuno nota. Io non chiedo la chiusura delle scuole speciali, non è il momento storico e comunque credo che siano più un sintomo che il problema. Però vorrei che quando un bambino va in una scuola speciale almeno dieci persone dai servizi, dalla scuola, dalle associazioni si sedessero attorno a un tavolo per chiedersi “dov’è che abbiamo fallito?”. Dov’è stato il problema? Perché non è vero che il problema è che Mario è grave. Il problema è che il contesto attorno a Mario è stato gravemente escludente. Allora può darsi che il bene di Mario, oggi, sia la scuola speciale, ma se ma il mondo educativo della scuola, dei servizi, delle associazioni fosse in grado ogni volta di modificare il proprio modo di lavorare per permettere a Mario di stare nella scuola di tutti, il prossimo Mario potrebbe non dover scegliere la scuola speciale.

È colpa della scuola di tutti, che non è abbastanza inclusiva nonostante le parole?

Troppo facile dire che è colpa della scuola. Anche se è vero che la scuola è l’unico posto dove nessuno può permettersi di escludere nessuno e per questo è un laboratorio sociale interessantissimo. Eppure anche qui vediamo la fatica collettiva di confrontarsi con il concetto di normalità. Noi abbiamo bisogno di normalità, ne abbiamo bisogno per non doverci inventare ogni giorno la nostra vita, non ha senso dire che la normalità non esiste. Però la normalità è un concetto che cambia in continuazione, è come l’uomo di Vitruvio, è un modello ma nessuno è così o forse qualcuno lo è per un breve periodo della sua vita. Invece persino nella scuola – pensiamo al moltiplicarsi delle etichette sugli alunni – c’è un’idea di normalità mai discussa ma assunta come tale, fissa, e anche questo genera esclusione, perché è evidente a tutti che il “bambino normale” è solo una consistente minoranza.

Photo by Matt Cardy/Getty Images


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