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Kiev, riesplode la rivolta

Il 31 agosto mentre la Verkhovna Rada (Parlamento ucraino) si riuniva per definire una modifica costituzionale sul decentramento del Donbass, finalizzata a concedere margini d’autonomia ai territori dalle due autoproclamatesi Repubbliche Popolari secessioniste di Donetsk e di Lugansk, davanti alla sede del Parlamento divampava la protesta

di Redazione

A Kiev è tornata la tensione. Il 31 agosto mentre la Verkhovna Rada (Parlamento ucraino) si riuniva per definire una modifica costituzionale sul decentramento del Donbass, finalizzata a concedere margini d’autonomia ai territori dalle due autoproclamatesi Repubbliche Popolari secessioniste di Donetsk e di Lugansk, davanti alla sede del Parlamento divampava la protesta .

Questa proposta legislativa, voluta e appoggiata dal presidente ucraino Petro Poroshenko, ha immediatamente acceso gli animi e suscitato il disappunto dei gruppi ultranazionalisti di estrema destra Svoboda e Pravy Sektor, non disposti a concedere alcuna forma d’autonomia ai secessionisti russi e filorussi dell’Est del Paese. I militanti nazionalisti hanno immediatamente ingaggiato violenti scontri con le forze di polizia a difesa del Parlamento. Il bilancio, drammatico, della rivolta, secondo le fonti ucraine conta già 3 vittime tra le forze dell’ordine e 141 feriti, la maggior parte dei quali, 131, sempre tra le forze di polizia. A causa della gravità dei feriti il numero dei morti purtroppo potrebbe aumentare.

A Kiev si torna a capo con uno scenario che si ripete: violenza, granate che esplodono, manifestanti armati di mazze che si scagliano contro la polizia, vittime, feriti… tutto ciò, ci riporta agli eventi della fase finale della protesta di Euromaidan. La differenza, rispetto agli avvenimenti del gennaio – febbraio 2014, sta nel fatto, che gli stessi manifestanti che destituirono l’allora presidente legittimo Yanukovich ora si rivoltano contro quel potere, quello attuale, che loro stessi hanno condotto alla guida del Paese.

Nei colloqui del 24 agosto a Berlino tra il capo di Stato francese Francois Hollande, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente ucraino Petro Poroshenko, i due leader europei hanno cercato di “avvicinare” l’Ucraina alle posizioni della UE, con l’intenzione di risolvere la situazione nel Donbass tramite l’applicazione degli accordi di Minsk (ai quali prende parte anche la Russia) .

Petro Poroshenko si trova ora, letteralmente, tra l’incudine e il martello: da una parte schiacciato dalle pressioni dell’UE, dall’altra, dalle pressioni contrarie delle forze ultranazionaliste all’interno del Paese.

Il raggio d’azione del presidente ucraino è estremamente ridotto: dare delle concessioni alle regioni secessioniste gli farà perdere il consenso popolare soprattutto di quella base rivoluzionaria che si percepisce come la più autentica e patriota dell’Ucraina, la stessa base che, grazie al colpo di stato del febbraio dell’anno scorso, gli ha permesso la scalata al potere. Dall’altra, Poroshenko sa benissimo che senza l’appoggio economico dell’Occidente il Paese cadrebbe prestissimo in default. Sopravvivere aggrappati alla continua elargizione di prestiti ha portato a una sostanziale perdita di sovranità del Paese. Oggi, l’economia dell’Ucraina si trova in una posizione tale, per cui, il governo ucraino, non ha alternative se non eseguire gli ordini dei suoi creditori esterni.

Tuttavia in questo caos è quantomeno strana, se non addirittura ambigua, la posizione dell’UE. Gli stessi movimenti ultranazionalisti che ora si vorrebbero emarginare, ai tempi della protesta di Maidan, quando erano utili alle mire occidentali sull’Ucraina, erano invece tollerati, vezzeggiati, se non addirittura appoggiati dall’Occidente. Sembra si sia dimenticato che il leader del partito Svoboda Oleg Tyagnibok era uno dei tre capipopolo della protesta in Maidan Nezalezhnosti (gli altri due erano il pugile Vitaliy Klichko e Arseniy Yatsenyuk). Gli orientamenti del partito Svoboda e del Pravy Sektor erano chiari allora come lo sono ora. Gli stessi movimenti non hanno mai ne mascherato, ne celato i loro orientamenti ideologici di estrema destra, basta vedere il loro corredo simbolico, come la loro profonda russofobia.

Uno dei loro principali dogmi ideologici risiede proprio nell’idea di un’Ucraina indipendente e unitaria. Nel loro orizzonte ideologico “unitaria” non significa solo “una e indivisibile”, ma profondamente “uniforme” nella sua essenza nazionale, dove le differenze regionali sono considerate niente di più di un retaggio ormai tramontato, quello dell’epoca sovietica. Sono sempre stati contrari al riconoscimento di un qualsivoglia privilegio regionale, soprattutto se verso le regioni russofone del Sud-Est dell’Ucraina. Coerentemente alla loro impostazione ogni idea di decentramento del potere è percepito come una resa all’odiata Russia.

Quella del 31 agosto è il principio di una guerriglia civile, un diffuso malessere da parte della base ultranazionalista verso il governo di Kiev che ora si sta condensando in rivolta vera e propria. Gli esiti sono imprevedibili.

Molto dipenderà dalla reale applicazione degli accordi di Minsk non solo da parte di Kiev, ma anche delle regioni secessionisti, che sembrano non disposte a fare marcia indietro verso una loro eventuale reintegrazione sotto il potere di Kiev.

In ultima analisi bisognerà fare i conti, soprattutto, in base alla posizione degli Stati Uniti (non hanno partecipato agli accordi di Minsk), che a differenza dell’Europa, al fine di mantenere il loro ruolo di potenza egemonica mondiale hanno tutto l’interesse nell’alimentare un arco d’instabilità intorno alla Federazione Russa. Con gli eventi di Maidan è diventata famosa la dichiarazione di Victoria Nuland, assistente al Segretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici del Dipartimento di Stato USA: «Abbiamo investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita». La Nuland è diventata famosa per la frase: «Fuck The EU!» da lei pronunciata in una telefonata, registrata, con l’ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt, poco diplomatica e poco garbata nei riguardi dell’Unione Europea, ma di straordinaria efficacia esplicativa su quanto le mire USA sull’Ucraina possano mai coincidere con gli interessi europei.


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